Democrazia imperfetta: tensioni e sfida del socialismo democratico contro sovranismo e neoliberismo

La democrazia è un organismo vivo, ma non perfetto. È un’architettura fragile che si regge sull’equilibrio instabile tra diritti e doveri, libertà e responsabilità, istanze individuali e orizzonti collettivi. La sua storia non è una linea retta

Democrazia imperfetta: tensioni e sfida del socialismo democratico contro sovranismo e neoliberismo
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17 Giugno 2025 - 10.09


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di Antonio Picarazzi

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La democrazia è, per sua natura, un sistema imperfetto e continuamente esposto a minacce interne ed esterne. Con questo articolo tentiamo di affrontare la sua evoluzione storica e teorica, ponendo l’accento sul fatto che la democrazia, più che una forma compiuta, è una tensione costante verso un’utopia inattingibile. Tale dinamica, che si manifesta sin dai tempi antichi, è oggi messa a dura prova dall’affermazione del sovranismo di estrema destra, specialmente nell’Europa dell’Est e nei Paesi occidentali. 

La crisi della democrazia contemporanea è soprattutto il frutto del post-ideologismo, del dominio del neoliberismo globale e dell’egemonia culturale esercitata dalle nuove élite, anche attraverso la visione liberal-woke che ha svuotato le istanze sociali e universali della sinistra storica?

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Con questo articolo, che attinge a un vasto patrimonio di pensiero da Platone a Gramsci, da Locke a Marx, fino a pensatori moderni come Ivan Krastev, Nancy Fraser, Mark Lilla e Thomas Frank, tentiamo di proporreuna riflessione sul destino della democrazia.

La progressione storica dell’Imperfezione democratica

La democrazia è un organismo vivo, ma non perfetto. È un’architettura fragile che si regge sull’equilibrio instabile tra diritti e doveri, libertà e responsabilità, istanze individuali e orizzonti collettivi. La sua storia non è una linea retta verso la giustizia, ma un percorso accidentato, spesso interrotto da rigurgiti autoritari, da regressioni che ne mettono in discussione la tenuta. E tuttavia, è proprio questa imperfezione che rende la democrazia un motore storico. Non perché sia manchevole in sé, ma perché tende sempre a superarsi, a correggersi, a interrogarsi. La sua forza non sta nella perfezione, ma nella capacità di affrontare i propri limiti.

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Nell’antica Atene, dove il termine “democrazia” ebbe origine, Platone ne denunciava i rischi degenerativi: la libertà assoluta come anticamera dell’anarchia, la manipolabilità delle masse, l’incapacità di distinguere tra competenza e demagogia. Eppure, fu proprio Socrate, vittima della democrazia ateniese, a incarnare il principio della critica permanente che ogni società dovrebbe riservare a sé stessa. Aristotele, più pragmatico, vedeva nella “Politeía” — il governo dei molti nel rispetto delle leggi — un tentativo di mediazione, una forma mista che potesse evitare tanto la tirannide quanto l’oligarchia.

Lungo i secoli, la democrazia ha assunto forme diverse, adattandosi ai contesti storici, sociali, economici. Locke, nella sua riflessione sulla separazione dei poteri e sul contratto sociale, ha fornito le basi teoriche per un ordine liberale che garantisse i diritti dell’individuo contro l’arbitrio del sovrano. Adam Smith, da parte sua, pur padre dell’economia liberale, riconosceva i pericoli della concentrazione della ricchezza e l’importanza dell’istruzione per rendere i cittadini autonomi. Marx e Gramsci hanno mostrato i limiti di una democrazia solo formale, priva di una reale redistribuzione del potere economico. Bobbio ha posto con lucidità la questione della democrazia come regime dei diritti garantiti, e Canfora ha ricordato che la democrazia storica è stata sempre selettiva, escludente, spesso manipolata.

Tra gli esempi storici più significativi delle crisi democratiche vi è la Repubblica di Weimar, che pur essendo stata una delle democrazie più avanzate dell’epoca, generò — proprio attraverso i suoi limiti e la mancata gestione delle disuguaglianze — l’ascesa del nazismo. Similmente, la crisi del sistema parlamentare italiano negli anni ’20 fu uno degli elementi che aprirono la strada al fascismo.

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Ma è proprio la tensione verso un’uguaglianza mai pienamente realizzata che ha spinto la democrazia a trasformarsi, a interrogarsi, a reinventarsi. Le sue imperfezioni non sono un difetto esterno, ma la cifra stessa del suo esistere. Una democrazia che non accetta il conflitto, che non si lascia mettere in discussione, che non ammette la propria parzialità, è una democrazia morente.

Questa dinamica non appartiene solo al passato e si manifesta con forza anche nel nostro presente. L’affermazione crescente del sovranismo di estrema destra nei Paesi occidentali più avanzati — dagli Stati Uniti all’Europa — non è il prodotto di un’improvvisa involuzione culturale, ma l’effetto di un processo politico lungo, profondo, e in larga parte interno alla crisi della democrazia liberale.

L’esaurimento strumentale delle grandi narrazioni ideologiche del Novecento ha prodotto un vuoto che ha favorito l’egemonia del pensiero neoliberale. Negli anni 2000, molte forze progressiste hanno abbracciato un post-ideologismo che, lungi dal rafforzare la democrazia, ha finito per indebolirne i fondamenti sociali. La sinistra, in molte sue declinazioni, ha smesso di interpretare le tensioni economiche e culturali delle classi subalterne, rinunciando a una funzione di rappresentanza strutturale. Questo ha aperto il campo a una globalizzazione finanziaria disancorata da qualsiasi legame democratico, che ha concentrato potere e ricchezza in mani sempre più ristrette.

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L’opposizione crescente che oggi si manifesta non è realmente contro la globalizzazione in sé. Il conflitto contemporaneo non è tra globalisti e sovranisti, come spesso viene narrato, ma tra differenti oligarchie che si contendono la gestione dei benefici generati dalla globalizzazione, lasciando fuori dalla distribuzione la grande maggioranza della popolazione. In altre parole, non assistiamo a una lotta per la redistribuzione tra ricchi e poveri, ma a una redistribuzione della ricchezza tra ricchi, a scapito di tutti gli altri.

Il fatto che questo nuovo sovranismo riesca a trascinare con sé il consenso di ampi strati popolari nonostante rappresenti interessi economici dominanti, si spiega attraverso categorie analitiche già sviluppate nel Novecento. Gramsci parlava di egemonia culturale come del potere di una classe dirigente non solo di governare, ma di far accettare come “naturale” il proprio punto di vista a tutta la società. In maniera simile, Pierre Bourdieu ha mostrato come il dominio si eserciti anche attraverso strumenti simbolici e culturali, producendo un senso comune che legittima l’ordine esistente e disinnesca il conflitto sociale.

Così, l’ideologia sovranista si presenta come risposta alle paure collettive — sicurezza, identità, declino economico — ma in realtà canalizza quelle paure verso bersagli deboli (immigrati, istituzioni sovranazionali, minoranze) per distogliere l’attenzione dalle vere dinamiche di concentrazione del potere. È, in fondo, un’egemonia reazionaria, capace di mimetizzarsi come “anti elitaria” mentre conserva — e in molti casi rafforza — le élite economiche che intendeva combattere a parole.

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Ma per comprendere fino in fondo la crisi attuale della democrazia e l’ascesa del sovranismo, occorre fare un passo ulteriore e interrogarsi sul post-ideologismo che ha contraddistinto gran parte della sinistra occidentale a partire dagli anni Novanta e, ancor più, dopo il 2000. Questo post-ideologismo non ha significato solo la fine delle grandi narrazioni emancipative del Novecento, ma anche l’abbandono della critica alle strutture economiche e sociali che producono disuguaglianza. Il risultato è stato un progressivo disarmo culturale e politico di fronte all’avanzata del neoliberismo globale.

Molti partiti e movimenti progressisti, nel tentativo di mantenere una posizione centrale nel quadro politico, hanno finito per adottare — e spesso celebrare — i dogmi del libero mercato, della deregolamentazione finanziaria, della globalizzazione intesa come destino ineluttabile. In questo passaggio, il legame tra sinistra e questione sociale si è allentato fino quasi a spezzarsi, sostituito da una nuova forma di identitarismo liberal;in tal modo i conflitti di classe sono stati marginalizzati a favore di un’attenzione esasperata verso le istanze simboliche, culturali, e identitarie, che seppur legittime, hanno spesso finito per sostituire il terreno della redistribuzione e della giustizia sociale.

È in questo contesto che la visione woke, abbinata a quella liberal, ha distrutto la sinistra occidentale che si è rifugiata in battaglie morali e culturali slegate dal vissuto materiale delle classi popolari, perdendo così ogni presa sul piano della trasformazione sociale reale. Lo ha denunciato con forza anche Thomas Frank, analista americano, nel suo “Listen, Liberal“, e Mark Lilla con il suo saggio sul ritorno al pensiero collettivo. Dall’Europa orientale, Ivan Krastev ha messo in luce come il disincanto verso la democrazia liberale si alimenti proprio dell’identificazione di questa con un modello importato, elitario, inefficace. Slavoj Žižek, pur con toni provocatori, ha spesso sottolineato come l’identitarismo progressista sia funzionale al mantenimento dello status quo economico.

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La crisi della sinistra non risiede nell’aver abbracciato alcune battaglie in sé – dai diritti civili all’antirazzismo – ma nell’averle rese funzionali a una logica depoliticizzata e avulsa dalla giustizia materiale. Mentre i movimenti storici, dai sindacati LGBTQ+ alle lotte operaie antirazziste, legavano queste istanze alla redistribuzione del potere, oggi assistiamo a un paradosso: il corporate pride delle multinazionali o il linguaggio inclusivo svuotato di contenuto economico diventano strumenti per neutralizzare il conflitto di classe. È qui che emerge la differenza tra critici liberali come Frank e Lilla e pensatori socialisti come Fraser o Mouffe. I primi denunciano giustamente l’abbandono delle classi popolari da parte di una sinistra sempre più elitaria, ma restano ancorati a un orizzonte riformista incapace di mettere in discussione il capitalismo; i secondi, invece, smascherano il neoliberalismo come sistema che assorbe le rivendicazioni identitarie per disinnescarne la potenzialità trasformativa (Fraser parla di “progressismo neoliberale”).

Questa dinamica si riflette nelle contraddizioni odierne:

• Negli USA, Bernie Sanders ha dimostrato che un progressismo universalista, radicato nella giustizia economica, può riconquistare consenso popolare (“Non sono un socialista per l’1%, ma per il 99%”). Eppure, la deriva woke di settori del Partito Democratico – con la sua frammentazione identitaria e l’ossessione per il linguaggio iperindividualista – rischia di relegare la sinistra a un ruolo marginale, aprendo la strada alla destra trumpiana.

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• In Spagna, Pedro Sánchez rappresenta un esperimento più avanzato e misure come il reddito minimo vitale, il rafforzamento dei servizi pubblici e la legge sui diritti trans hanno mostrato che è possibile coniugare diritti civili e politiche redistributive, senza cadere nella trappola del liberalismo tecnocratico. Certo, restano limiti strutturali (dalle pressioni Ue alla dipendenza dai mercati), ma il caso spagnolo indica una possibile via d’uscita dall’impasse post-ideologica.

• In Italia, invece, il sovranismo di Meloni svela l’ipocrisia della destra al potere; qui la retorica anti-élite serve a mascherare politiche economiche profondamente neoliberali, dalle privatizzazioni al taglio del reddito di cittadinanza. Un monito sul rischio di confondere la demagogia sovranista con una vera alternativa.

La Rivoluzione Passiva

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Questa deriva, ampiamente analizzata da autori critici come Nancy Fraser o Wolfgang Streeck, ha prodotto un restringimento degli spazi democratici, in cui il confronto politico si è spostato su questioni etiche individuali e rappresentazioni culturali, lasciando intatte — o addirittura rafforzando — le disuguaglianze strutturali. La democrazia, così, si è trasformata in una macchina procedurale al servizio di oligarchie economiche, mentre lo scontro politico si è ridotto a un conflitto tra identità fragili, senza capacità trasformativa.

Il pensiero di Gramsci, che parlava di “rivoluzione passiva” e di “trasformismo” come strumenti per neutralizzare le potenzialità rivoluzionarie delle classi subalterne, appare oggi quanto mai attuale. Così come Bourdieu, che ci ha insegnato come il dominio culturale si eserciti attraverso la produzione di senso comune, delegittimando ogni alternativa sistemica in nome del realismo o del progresso inevitabile.

Il caso dell’Europa dell’Est è emblematico. Proprio in Paesi come Ungheria, Polonia, Slovacchia o Romania, l’affermazione di forze sovraniste e illiberali si è radicata con forza proprio in quegli spazi che per cinquant’anni erano stati assoggettati al comunismo sovietico. Lì, la democrazia è stata percepita non come conquista popolare, ma come imposizione esterna arrivata insieme a shock economici, privatizzazioni selvagge, disgregazione del tessuto sociale. La transizione al capitalismo è stata rapida, brutale e spesso traumatica, l’anticomunismo diffuso si è trasformato in un rifiuto generalizzato della democrazia liberale, vissuta come debole, corrotta, estranea.

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In quel vuoto di senso, le nuove destre autoritarie hanno trovato terreno fertile promettendo protezione, identità, sicurezza. Ma dietro il linguaggio del popolo si cela un progetto di potere verticistico, patriarcale e autoritario, legittimato da un uso strumentale della sovranità nazionale e da una retorica culturale fortemente reazionaria.

In sintesi, il vero rischio oggi non è un ritorno al passato, ma un presente che si deforma in nome di una democrazia svuotata, che ha smarrito il suo legame con la giustizia sociale e con l’idea stessa di emancipazione collettiva. La democrazia contemporanea rischia di ridursi a un insieme di riti formali, schiacciati tra l’egemonia economica del neoliberismo e la regressione autoritaria del sovranismo, mentre il popolo — nella sua dimensione reale — resta senza rappresentanza.

Il Contratto Sociale come antidoto alla Democrazia regressiva?

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Nella genealogia del pensiero democratico, è impossibile ignorare Jean-Jacques Rousseau, che con il suo “Contratto sociale” offrì una delle più profonde e radicali interpretazioni della sovranità popolare. Per Rousseau, la volontà generale non è la semplice somma degli interessi individuali, ma un’espressione collettiva che punta al bene comune. Egli avvertiva il pericolo della democrazia degenerata in formalismo, ed è in questa critica che si coglie il suo insegnamento più attuale: la democrazia deve sempre mirare a una partecipazione reale e attiva del cittadino, pena la sua trasformazione in pura procedura. Una riflessione che anticipa il vuoto contemporaneo, dove il cittadino-consumatore ha preso il posto del cittadino-partecipante.

In un simile contesto, appare sempre più chiaro che la speranza in una rinascita democratica non può che passare attraverso la ricostruzione del messaggio della sinistra, e questa speranza risiede nel socialismo democratico. Non una sinistra nostalgica o ideologica, ma una forza capace di leggere il presente con occhi critici e di costruire un progetto alternativo alla duplice involuzione del sovranismo autoritario e della globalizzazione neoliberista. È qui che tornano centrali le teorie di Antonio Gramsci, che ci ricordano che il cambiamento non si impone dall’alto, ma si costruisce nella società civile, attraverso una “guerra di posizione” che conquista le casematte del senso comune e dà luogo a una nuova egemonia culturale.

Questa nuova egemonia non può nascere che da un progetto inclusivo, sociale, solidaristico e partecipativo. In tal senso, le riflessioni dell’economista indiano Amartya Sen, Premio Nobel per l’Economia, risultano fondamentali. La sua teoria delle capabilities (capacità) sottolinea come la libertà reale degli individui non sia garantita dalla sola libertà formale, ma dalla possibilità concreta di realizzare una vita dignitosa. Per Sen, sviluppo, libertà e giustizia sociale sono processi interdipendenti. È questa visione che può ridare sostanza al progetto della sinistra, cioè un socialismo democratico dei diritti, delle opportunità, del benessere collettivo.

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Verso una nuova forma di partecipazione dal basso

Nel tempo in cui la democrazia sembra vacillare sotto il peso delle sue contraddizioni e delle sfide contemporanee, il suo carattere imperfetto emerge non come una debolezza, ma come un invito incessante al rinnovamento. La storia ci insegna che le crisi democratiche sono tanto pericoli quanto opportunità proprio perchè possono aprire la via a derive autoritarie o, al contrario, diventare il terreno fertile per una nuova stagione di emancipazione e partecipazione. Il compito che ci attende non è quello di inseguire una perfezione irraggiungibile, ma di coltivare un’utopia necessaria, che alimenti la speranza e indirizzi l’azione verso una democrazia realmente inclusiva, capace di ridistribuire potere e ricchezza, di restituire dignità alle classi popolari e di rigenerare il senso di comunità.

Il socialismo democratico, come suggerito da Antonio Gramsci con la sua teoria dell’egemonia culturale e della “guerra di posizione”, non è un semplice ritorno al passato, ma una sfida al presente, un progetto di futuro. Questa visione trova un importante sviluppo anche in pensatori come Eduard Bernstein, che auspicava un socialismo riformista fondato sulla democrazia e i diritti civili, e negli interventi di Norberto Bobbio, che ne ha delineato l’idea come un compromesso dinamico tra libertà e uguaglianza. A livello internazionale, autori come Michael Walzer e David Held hanno sottolineato l’importanza di un socialismo democratico che riconosca il pluralismo e la partecipazione come elementi fondamentali per una società giusta. 

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Tra i pensatori contemporanei europei, Chantal Mouffe ha insistito sulla necessità di un “agonismo democratico” che valorizzi il conflitto politico e sociale come elemento vitale della democrazia, opponendosi alle forme di post-politica e tecnocrazia che svuotano di senso l’impegno collettivo. Inoltre, autori come Marco Revelli e Wolfgang Streeck hanno analizzato le crisi delle istituzioni democratiche in relazione alle trasformazioni economiche e sociali, proponendo una riflessione critica che non rinuncia all’idea di un socialismo democratico come orizzonte possibile. Luigi Covatta ha inoltre richiamato l’attenzione sul ruolo delle forze progressiste nel recupero di un’identità politica che sappia coniugare riformismo e radicalità, senza rinunciare a una visione di lungo periodo.

È questa prospettiva che può ridare sostanza e forza al progetto della sinistra: un socialismo democratico dei diritti, delle opportunità e del benessere collettivo, capace di contrastare efficacemente le derive autoritarie del sovranismo e le disuguaglianze radicalizzate dal neoliberismo globale. Solo riprendendo questo filo, riappropriandosi del senso profondo della democrazia e della politica, potremo sperare di costruire un’alternativa credibile e duratura.

In questo cammino, la democrazia si rivela non come un traguardo statico, ma come un processo dinamico, un’opera in divenire che chiede il contributo di tutte le forze critiche e creative. È nella consapevolezza dei suoi limiti e nell’impegno quotidiano per superarli che risiede la sua forza più autentica. In fin dei conti, la democrazia non è solo un sistema politico, ma un ideale vivente che, pur imperfetto, continua a incarnare la speranza di un mondo più giusto e umano.

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La Democrazia Diffusa è il metodo per superare le imperfezioni, oltre che le disuguaglianze, e per far sì che la giustizia sociale non sia un’idea astratta, ma una conquista tangibile. È il percorso graduale ma inarrestabile per radicare i valori socialisti nella vita di ogni giorno, trasformando la speranza in azione concreta.

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