Giorgia Meloni ha partecipato alla festa per l’Indipendenza americana a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore Usa a Roma, affermando che “Italia e Usa oggi su tanti dossier parlano la stessa lingua”. È una frase solo apparentemente innocua.
In realtà, è l’ennesimo atto di sottomissione simbolica nei confronti di un alleato che negli ultimi anni, specie nella versione trumpiana, ha trattato l’Europa come un insieme di parassiti e di deboli a cui “baciamo il culo” — parole testuali di Donald Trump, non di un comico da bar.
Meloni ha proseguito lodando “lealtà e rispetto reciproco” tra i due Paesi, parlando della “compattezza dell’Occidente” come di un bene da difendere anche “quando i punti di vista non dovessero essere coincidenti”. Ma ciò che sorprende è che, pur di farsi benvolere dall’establishment statunitense (e da quello repubblicano in particolare), la premier non trovi mai il coraggio di dire qualcosa di sostanziale quando gli Stati Uniti sbagliano — e oggi, davanti alla prospettiva concreta che Trump possa tornare alla Casa Bianca, il silenzio è assordante.
Meloni dice che parliamo la stessa lingua degli USA. Ma quale lingua? Quella dei “you’re fired”, dei diktat commerciali, delle minacce alla NATO e del disprezzo per l’Unione Europea? È questa l’America a cui ci stiamo affidando senza alcuna autonomia di giudizio? Per Meloni sì. Non una parola sull’uso della volgarità come stile politico, sull’umiliazione degli alleati, sull’ideologia dell’isolazionismo aggressivo che ha già prodotto danni gravi durante la precedente amministrazione Trump.
Colpisce, ancora una volta, il doppio standard. Il 25 aprile, la festa della Liberazione italiana, viene da Meloni trattata come un fastidio rituale, un appuntamento da liquidare con la formula minima sindacale, magari senza nemmeno pronunciare la parola “antifascismo”. Il 4 luglio, invece, diventa un tripudio di retorica, patriottismo made in USA, omaggi e dichiarazioni enfatiche. Una Premier che tace sul significato della nostra democrazia, ma si entusiasma per l’indipendenza americana, offre un’immagine di sé profondamente sbilanciata: sempre pronta a lodare Washington, mai a rivendicare davvero Roma.
Il paradosso è che Meloni, che si è costruita una carriera politica sull’idea della sovranità nazionale, oggi recita la parte della più zelante delle vassalle. Ha fatto della “libertà dell’Italia” uno slogan da comizio, ma nella pratica si muove come chi aspetta il prossimo inquilino della Casa Bianca per sapere che linea seguire. Anche se quell’inquilino dovesse essere lo stesso che ha definito l’Europa “ingrata” e “approfittatrice” e che ha più volte messo in discussione l’intero impianto della cooperazione atlantica.
Per questo, al di là dei sorrisi, delle foto ufficiali e dei calici levati a Villa Taverna, Meloni merita oggi il premio della “vassallaggine” più smaccata. Non perché l’alleanza con gli Stati Uniti non sia importante — lo è, eccome — ma perché un’alleanza non è servitù. E un capo di governo serio non si limita a “parlare la stessa lingua”: sa anche quando serve dire un no, chiaro e pubblico. Giorgia Meloni, ancora una volta, ha scelto il silenzio.
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