Le parole del ministro israeliano Gideon Saar — che definisce “suicida” l’idea di uno Stato palestinese e dice cha a ovest del Giordano è tutta terra israeliana e non palestinese— e le mosse del collega Bezalel Smotrich, che continua a legittimare insediamenti illegali in Cisgiordania, non lasciano margini di ambiguità: Israele non solo respinge il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, ma progetta apertamente di cancellarlo. A Gaza si discute persino di piani di espulsione e di rioccupazione della Striscia.
Eppure, di fronte a questa realtà, Giorgia Meloni ha trovato il coraggio non per difendere i diritti calpestati, ma per definire “controproducente” il riconoscimento di uno Stato palestinese. Un rovesciamento logico che grida allo scandalo: davvero è “controproducente” affermare un principio di giustizia universale, mentre sarebbe “produttivo” mantenere un’occupazione senza fine, con violenza e illegalità come norma quotidiana?
Il risultato è una postura che sa di inchino politico più che di alleanza consapevole. L’Italia, con la sua tradizione diplomatica, dovrebbe farsi promotrice di dialogo, mediazione e coraggio, non ridursi a fare eco alle posizioni più intransigenti del governo Netanyahu. Così facendo, Meloni non solo contraddice i valori che l’Europa dice di voler difendere, ma rischia di relegare il nostro Paese ai margini di un contesto internazionale che, pur lentamente, sta riconoscendo l’urgenza dei diritti palestinesi.
Non c’è più spazio per gli alibi. Se davvero si vuole la pace, bisogna smettere di chiamare “controproducente” ciò che è semplicemente giusto. Perché la pace non nasce dall’obbedienza cieca, ma dalla capacità di dire la verità anche quando costa.
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