In un Senato attraversato da tensioni ideologiche e priorità economiche, fallisce il tentativo di Lucio Malan, capogruppo di Fratelli d’Italia, di cancellare il divieto di pubblicità sessiste, omofobe o discriminatorie dal Codice della Strada.
L’emendamento, presentato insieme al collega Salvo Pogliese, mirava a eliminare una norma introdotta nel 2021 per tutelare la dignità umana negli spazi pubblici.
Ma il “blitz” si è scontrato con un doppio muro: la reazione compatta dell’opposizione e la questione di fiducia posta dal governo per accelerare l’approvazione del DDL Concorrenza. Tutti gli emendamenti, compreso quello di Malan, sono così decaduti senza voto.
La norma del 2021: una “leggina Zan” per la destra, una garanzia di civiltà per i diritti
La norma che Malan voleva cancellare risale al governo Draghi.
Voluta da Alessia Rotta (PD) e Raffaella Paita (Italia Viva), vieta messaggi pubblicitari “sessisti, violenti o discriminatori” su strade e veicoli, tutelando cittadini e cittadine da contenuti offensivi per sesso, orientamento sessuale, identità di genere, etnia o religione.
Per la destra si trattava di una “leggina Zan”, una sorta di vendetta dopo il fallimento del disegno di legge contro l’omotransfobia. Ma negli anni la norma ha trovato ampio riscontro giurisprudenziale, con il Consiglio di Stato che ne ha più volte confermato la legittimità.
Quando la legge ha funzionato: dalle campagne anti-gender ai manifesti razzisti
Negli ultimi anni, la norma è stata messa più volte alla prova da campagne che hanno sollevato polemiche e ricorsi.
A Roma, nel 2022, le autorità hanno disposto la rimozione dei manifesti di Pro Vita & Famiglia che denunciavano le cosiddette “teorie gender” nelle scuole, giudicati lesivi della dignità delle persone LGBTQ+.
Un caso simile si è ripetuto nel 2025 a Rimini, dove una campagna dal tono apertamente provocatorio contro l’“indottrinamento gender” è stata bocciata dall’amministrazione comunale sulla base della stessa norma.
Sempre nel 2025, la legge è tornata in prima linea a Roma, dove sono stati rimossi i cartelloni della Lega con immagini generate dall’intelligenza artificiale che ritraevano persone rom e nere in atteggiamenti criminali. L’Autorità garante e il TAR hanno stabilito che quei manifesti configuravano una forma di discriminazione razziale e incitamento all’odio.
Casi diversi, ma accomunati da una stessa conclusione: la legge non censura opinioni, ma impedisce che messaggi pubblici offensivi o degradanti trasformino la libertà di espressione in strumento di discriminazione.
L’emendamento di Malan: un colpo di mano mancato
L’emendamento FdI era stato inserito nel DDL Concorrenza, camuffato da modifica tecnica. In realtà puntava a stralciare l’intero articolo 23-bis, eliminando il divieto di pubblicità discriminatorie.
Il tentativo, sostenuto da Pro Vita & Famiglia come “un passo avanti contro la censura ideologica”, è stato bloccato prima del voto.
Il governo, sotto pressione per la legge di bilancio, ha deciso di porre la fiducia sul testo complessivo, facendo cadere automaticamente tutti gli emendamenti.
Il sottosegretario Bitonci ha chiuso la questione con una frase lapidaria: “Ora priorità alle imprese, non alle polemiche ideologiche”.
Le reazioni: opposizione compatta, imbarazzo nella maggioranza
Il centrosinistra ha reagito con un coro di condanne.
Per il PD e Italia Viva si tratta di “un tentativo regressivo e pericoloso”; per il M5S “un segnale scriteriato”; per AVS “uno scandalo”.
Annamaria Testa, esperta di comunicazione, ha spiegato: “Riaprire ai messaggi discriminatori significherebbe legittimare l’odio su spazi pubblici”.
Silenzio, invece, da Lega e Forza Italia: un imbarazzo che rivela la spaccatura interna alla maggioranza.
Libertà di espressione o diritto a non essere discriminati?
Dietro il confronto parlamentare si nasconde una frattura culturale più profonda.
Per Malan e i movimenti ultraconservatori, il divieto limita la libertà di espressione; per chi difende la norma, essa è una barriera minima contro la propaganda dell’odio.
I dati ISTAT parlano chiaro: il 30% degli studenti LGBTQ+ subisce episodi di bullismo. E secondo le direttive europee, la tutela dallo hate speech è parte integrante della libertà democratica.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza del 2025, ha ribadito il principio: “Non è censura, ma bilanciamento tra libertà e uguaglianza”.
Un tentativo fallito, ma la battaglia continua
Il blitz di Malan si chiude con un nulla di fatto, ma la partita resta aperta.
Il fronte conservatore continuerà a insistere sulla “censura ideologica”, mentre la società civile difenderà la norma come baluardo di civiltà.
In un Paese ancora diviso sui diritti, il caso mostra una verità semplice ma scomoda: in Italia la libertà di parola è spesso invocata per difendere il diritto di discriminare.
Per ora, almeno, i manifesti dell’odio restano al palo.
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