Non si capisce bene cosa ci sia da esultare, come fa la maggioranza di governo, per aver approvato la cosiddetta riforma costituzionale della giustizia, che prevede la separazione delle carriere fra magistratura giudicante e inquirente.
In un paese come l’Italia, in cui il passaggio dal mestiere di pubblico ministero a quello di giudice coinvolge ogni anno lo 0,5% dei magistrati e prevede comunque che il neo-giudice o il neo pm cambi regione, proprio per evitare conflitti di interessi, qual è il senso di questa riforma costituzionale?
Per quanto la propaganda imponga di presentare come grandi successi anche iniziative per lo più ininfluenti, questo entusiasmo diffuso nei dintorni del governo lascia perplessi.
Forza Italia gioisce per aver esaudito il desiderio di Silvio Berlusconi, che interpretava questa riforma in senso punitivo nei confronti della magistratura, pur non essendo mai riuscito a portarla a termine.
Viene il sospetto che anche l’attuale maggioranza la interpreti in senso punitivo, tanto che la presidente del consiglio Giorgia Meloni – adusa a lamentarsi (tanto quanto Berlusconi) della presunta politicizzazione dei giudici e, in generale, di tutti i poteri “terzi” rispetto al governo – ha esplicitamente dichiarato che questa riforma contrasterà la tendenza della magistratura a intromettersi dove non deve.
Il dubbio è: dal momento che gli stipendi di giudici e pm restano i medesimi, così come la lentezza dei processi e l’inefficienza del sistema – semplicemente quella sparuta minoranza di magistrati pronta a cambiare regione di residenza pur di cambiare funzione, non potrà più farlo – perché questa riforma viene considerata una mannaia sulla magistratura, e spacciata come una conquista epocale?
Per ammissione dello stesso ministro della giustizia Carlo Nordio, i cittadini non subiranno alcuna conseguenza dalla separazione delle carriere dei magistrati, perché, appunto, nulla cambierà rispetto alle difficoltà di avere giustizia in questo paese.
Allora, purtroppo, il timore è che dietro ci sia altro. Ad esempio, che questa riforma sia collegata a un altro disegno di legge fermo in Parlamento e ancora in via di configurazione definitiva, che concerne l’eliminazione di uno dei pilastri del nostro sistema democratico: l’obbligatorietà dell’azione penale.
Attualmente, eccetto alcune deroghe via via introdotte a partire dalla riforma Cartabia fino a questi ultimi anni, i magistrati sono obbligati a indagare su qualsiasi notizia di reato di cui vengano a conoscenza. Il che protegge e tutela le vittime, soprattutto quelle che non vogliono o non possono sporgere denuncia.
Eliminare questa garanzia costituzionale, contraltare dell’altro pilastro dell’architettura democratica della nostra Costituzione, cioè l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello stato, è con ogni evidenza prodromico al vero e malcelato intento di questa destra: sottoporre la magistratura al controllo dell’esecutivo.
Il progetto, già messo a punto dall’indimenticato Licio Gelli negli anni ’80, è semplice: separare le carriere, così da “spostare” i pubblici ministeri sotto il controllo del ministro della giustizia – farlo con i giudici appariva eccessivo perfino al Venerabile – e poi attribuire al parlamento il compito di stabilire anno per anno quali reati debbano essere perseguiti in via prioritaria.
Come raccomanda spesso Piercamillo Davigo, è opportuno riflettere su quali reati verrebbero perseguiti con la massima priorità e quali verrebbero trascurati. Poi, in seconda istanza, interrogarci sulle conseguenze.
È verosimile supporre che il Parlamento non deciderebbe di indagare con urgenza sui reati dei colletti bianchi, quanto piuttosto sulla cosiddetta criminalità da strada. Rimane indimenticato, in questo senso, lo straordinario e urgentissimo provvedimento contro i rave party con cui il governo Meloni aprì nel 2022 la stagione di riforme dominata dalla destra.
Peraltro, nessuno nega che la delinquenza di strada sia una piaga sociale, soprattutto nelle grandi città, e che sia necessaria una lotta ben più accanita al traffico di stupefacenti, alle rapine, alla microcriminalità in generale. Ma noi cittadini dobbiamo sempre tenere presente che reati come corruzione, concussione, falso in bilancio, frode fiscale, bancarotta… sono crimini che ledono il bilancio pubblico, cioè, più semplicemente, rubano i soldi dei contribuenti togliendoli alla sanità, all’istruzione, al welfare, alla giustizia stessa. Paradossalmente, il danno che riceviamo dalle classi dirigenti dedite al malaffare – in termini economici – è spesso molto maggiore di quello che possiamo subire dalla criminalità di strada. In breve, l’impunità delle classi dirigenti “non ci conviene”.
Senza contare che la subordinazione della magistratura inquirente al governo costituisce un vulnus democratico tutt’altro che innocuo, perché mina le fondamenta della separazione di poteri, dei pesi e contrappesi costituzionali, dei poteri di controllo: insomma, apre la strada a una torsione autoritaria dello stato.
 
  
  
  
  
  
 