Pet sempre più umanizzati e sempre più redditizi: ma è sano trattare un animale come nostro figlio?

I proprietari trattano sempre più i loro animali come figli, rinegando di fatto la loro natura. Il mercato, ovviamente, sta cavalcando tale atteggiamento. Il punto della situazione.

Pet sempre più umanizzati e sempre più redditizi: ma è sano trattare un animale come nostro figlio?
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Agostino Forgione Modifica articolo

18 Giugno 2025 - 16.41 Culture


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Che il mercato sia un termometro capace di rilevare tendenze e desideri dei consumatori paradossalmente prima che quest’ultimi ne prendano coscienza è cosa assodata. A tal proposito c’è un dato che, nella sua oggettività, è una fulgida cartina al tornasole di come il nostro rapporto con gli animali domestici stia evolvendo: il settore del pet care produce prodotti sempre più simili a quelli del baby care. I primi replicano sempre più linee, colori e forme dei secondi, suggerendo implicitamente un parallelo tra i due mondi.  Il riflesso pubblicitario di un atteggiamento sempre più comune e diffuso, quello di considerare gli animai da compagnia come nostri figli. Analogia corroborata da un ulteriore aspetto: né i pet né gli infanti, destinatari dei prodotti, sono coloro che hanno potere decisionale all’interno del processo di acquisto. 

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L’umanizzazione degli animali domestici è un fenomeno sempre più comune, che negli ultimi decenni si sta estendendo a macchia d’olio. A riguardo basti pensare che, secondo un’indagine condotta dall’Osservatorio Unipol ed elaborata da Ipsos, il 79% dei proprietari considera i propri pet come membri della famiglia a pieno titolo. Tendenza che, laddove estremizzata, mina anzitutto al benessere animale. Il trend ovviamente è stato subito cavalcato della pet industry, che ha scorto in tutto ciò ottime possibile di guadagno. Secondo l’ultimo rapporto Eurispes, infatti, i proprietari spendono sempre di più. A essere accolti sono principalmente cani e gatti, presenti entrambi per il 37% nel 40,5% di case che ospitano animali.

Dal report emerge come il 52,7% di questi spenda mediamente dai 31 ai 100 euro al mese per la loro cura, il 18,9% meno di 30, il 28,4% più di 100 e il 2,9% addirittura più di 300, con le categorie di spesa più ingenti che riguardano l’alimentazione e le cure veterinarie. Degno di nota come solo rispetto al 2024 il segmento di coloro che spendono tra i 101 e i 200 euro al mese sia cresciuto di ben 6,5 punti percentuali, mentre quello tra 201 e 300 del 2,5%. In altre parole, circa un proprietario su dieci investe mensilmente più di 200 euro per la cura del proprio animale domestico. Secondo l’American Pet Products Association (APPA) si tratta di numeri destinati a crescere costantemente: la loro proiezione mostra come dai 2,2 miliardi spesi globalmente nel 2024 si passerà a 5,4 miliardi nel 2033.

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Premesso ciò e prescindendo dal sacrosanto principio di libertà personale, viene da chiedersi se sia sano spendere 195 euro per un “maglioncino per cani in lana merinos” – prezzi reali presi da un catalogo di abbigliamento di lusso per cani – o ‘soli’ 109 per un “vestito elegante per cagnolini”. La risposta, che arriva dalla veterinaria ed è scevra da ogni considerazione personale, importante sottolinearlo, è lapidaria: no, non lo è. Un’eccessiva umanizzazione dei pet, che comprende anche vestire i propri animali laddove non sia necessario (e lo è molto raramente), danneggia anzitutto quest’ultimi. Un atteggiamento, quello appena descritto, sempre più comune, ma che può comportare disagio fisico, stress e alterazione della termoregolazione, oltre a impattare sul comportamento e sulle dinamiche interazionali con i propri simili.

Alla luce di tutto ciò sorge spontanea una domanda. Quanto trattare come nostro figlio un animale domestico giova alla sua salute e in che misura invece non è solo un modo per nutrire e appagare – frivolamente – il nostro ego? Mi assumo la responsabilità di un’affermazione che in molti sicuramente troveranno forte, ma in cui credo fortemente: mettere sullo stesso piano animali e umani è, in una sola parola, disumano. Un comportamento lesivo anzitutto della dignità umana e, secondariamente, anche del benessere animale. L’auspicio, dunque è uno: che i proprietari continuino a giovare del rapporto instaurato con i propri pet senza mai dimenticare che natura umana e animale non sono minimamente comparabili, con quanto ne deriva.

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