Globalizzazione social e guerra permanente: come le religioni radicalizzate hanno invaso la geopolitica mondiale
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Globalizzazione social e guerra permanente: come le religioni radicalizzate hanno invaso la geopolitica mondiale

La storia, per essere capita, ha bisogno di date. E un lavoro arbitrario, perché tutto ha una causa, un’origine. Ma le date sono importanti per orientarsi negli accadimenti.

Globalizzazione social e guerra permanente: come le religioni radicalizzate hanno invaso la geopolitica mondiale
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

20 Giugno 2025 - 23.15


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La storia, per essere capita, ha bisogno di date. E un lavoro arbitrario, perché tutto ha una causa, un’origine. Ma le date sono importanti per orientarsi negli accadimenti. L’impressione che si sia entrati in un’epoca di guerra permanente può essere fondata o infondata. Ma anche questo ha bisogno di date per essere affermato o negato. Forse alcune date offrono la possibilità di una lettura dell’oggi.

2005: frequenti datazioni pongono intorno a questa data l’affermazione globale del social media, che abbattono barriere e consentono una comunicazione di idee e informazioni in tempo reale. Queste “rete” dilaga tra espatriati e chi invece è rimasto nel proprio paese di origine.


2009: la rielezione (fraudolenta) di Mahmoud Ahmadinejad determina un’insurrezione popolare in Iran.
2011: l’insurrezione popolare arriva nell’araba Tunisia dopo che un venditore ambulante si dà fuoco per l’insopportabilità dei soprusi patiti. L’incendio arriva a fino a Baghdad, ma ha il suo epicentro in Siria.
Il nuovo mondo globale sembra aver avuto un peso sostanziale negli accadimenti di ambienti e sistemi politici chiusi.
2013: Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, davanti alla repressione feroce delle proteste fissa una linea rossa, l’uso di armi chimiche da parte del regime: se oltrepassato gli Usa interverranno. Quando vengono usate però non interviene, non crea le “no fly zone” per impedire il massacro di civili nelle aree degli insorti.


2014: è l’inizio ufficiale della crisi ucraina, che allontana le attenzioni di Barack Obama dal Medio Oriente.
2015: E’ l’anno dell’intervento russo in Siria e dell’intesa degli Stati Uniti con il regime iraniano sul nucleare, che non tocca questione relative ai diritti umani e alle ingerenze armate in numerosi Paesi arabi.

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La politica dei globalizzatori non ha saputo seguire la globalizzazione delle aspettative, anche perché sono stati anteposti interesse geopolitici e geostrategici. Ma queste date hanno svolto ruolo, e potrebbero indicare il tempo in cui siamo entrati in una guerra permanente, che ha avuto una tragica impennata con il’inaudito del 7 ottobre 2023 e le sue impensate conseguenze. Hamas c’è ancora a Gaza, ma Gaza c’è ancora?

L’esposizione può essere definita di parte, resta l’idea che la globalizzazione delle comunicazione ma non di chi comunica abbia determinato un cortocircuito che si è trasformato in guerra permanente. Più si procede su questa strada più le religioni, spesso radicalizzate dalla paura del crescente numero di secolarizzati, si siano sentite sfidate e quindi si siano avvicinate a poteri traballanti, per essere legittimate da essi. Accade in Iran, dove l’orrore teocratico più ha svuotato le moschee più è arrivato a tradire il suo elettorato spendendo tutto per lotta per una lotta che non chiamava mai palestinese, ma islamica, dispossessando i palestinesi della propria questione; accade in Russia, dove davanti a statistiche che indicano la diminuzione dei praticanti, la guerra ucraina è stata spiegata non con l’espansione della Nato ma come lotta metafisica tra il bene (la Russia cristiana) e il male (la secolarizzazione occidentale dell’Ucraina); accade in America, dove il presidente della grande deportazione, Donald Trump, mentre l’annunciava si autoproclamava difensore e restauratore dei valori cristiani, coadiuvato da pastori che hanno varato un Vangelo tutto nuovo, quello della prosperità; accade in Israele dove si presenta sempre di più un Israele messianico: in Europa solo Papa Francesco ha posto un argine all’attrazione di chiese che speravano di rilanciarsi dando fiato a sentimenti nostalgici, ora islamofobi, ora antisemiti.

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Il richiamo al passato remoto, sempre più frequente, crea sorprendenti accavallamenti: il premier israeliano Netanyahu ha detto in queste ore che cambiare regime spetta agli iraniani, ma gli ebrei hanno un debito storico con i persiani, che li liberarono dalla schiavitù a Babilonia. Ma qui si può scorgere un richiamo all’ideologia sottesa al progetto khomeinista, che ha inteso anche tornare fino al Mediterraneo per rifare proprio quell’impero persiano, più che per Ciro per odio verso Alessandro Magno. La storia per gli apocalittici pasdaran non esiste, le ostilità sono eterne, immutabili, con tutto ciò che ne consegue.



La guerra-continua ci assedia anche da altri fronti, con il caso angoscioso e quasi rimosso di Gaza, o con la Libia, o il Sahel, o con il Sudan e ancora. Immersi in un codice binario, nel fallimento ormai conclamato del sistema ONU, del multilateralismo, quindi della cooperazione nella soluzione di problemi comuni, del contenimento del male, tutti cerchiamo il modo per sradicare il male. Ecco tutte tesi assolute, senza se e senza ma: il male è sempre tutto da una parte.

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Ci sono persone che soffrono e muoiono in tutti Paesi coinvolti dagli odierni conflitti, non è possibile vederne alcuni e non altri. Ma il nostro sistema relazionale sembra imporci di scegliere, di qua o di là. Siamo tutti estremisti? Nel discorso politico globale la moderazione non è più un valore, ma un disvalore, da quando una certa sottocultura l’ha identificata con “l’inciucio”. Ma tutti i versanti informativi contribuiscono, per calcolo o per necessità, a fomentare questa deriva assolutista. In un clangore di voce estremiste, una voce moderata non si sente. Per farsi sentire occorre spararla più grossa, urlare di più, colpire, sperare di affossare il nemico. Qui finisce la complessità della storia, e inconsapevolmente si dà manforte agli estremisti dell’altro campo. Un estremismo difficilmente si manifesta da solo, trova forza nel suo opposto, che per alcuni lo legittima.

L’Europa è in crisi perché rappresenta un modello che in sé è alternativo a questa logica: non ci dice se la Francia o la Germania hanno tutte le colpe, ma che le loro storie possono procedere insieme.

Se l’Europa salvasse se stessa dai suoi fantasmi interiori avrebbe di nuovo il modo di svolgere un ruolo.

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