di Margherita Degani
In un’epoca dominata da messaggi istantanei e comunicazioni lampo, dove perfino i sentimenti più complessi vengono ridotti a semplici emoji, il gesto antico di scrivere una lettera – e quindi leggerla- sembra ormai fuori dal tempo. Eppure, proprio in questo medium dall’aspetto antiquato e sorpassato si nasconde un fascino profondo, dal sapore insospettabilmente intimo. Dedicare i propri pensieri ad un pezzo di carta, infatti, richiede tempo e intenzione perché ogni parola è scelta, articolata, ripensata. D’altra parte, chi la riceve sa di essere stato pensato davvero. Ogni foglio ed ogni busta, ogni indirizzo e percorso postale sono una storia da esplorare ed immaginare; un racconto che può trascinare chiunque tra le pieghe dell’umano. Una lettera si legge, si tocca e si conserva assieme agli odori dell’inchiostro e magari del tempo trascorso tra la polvere, in un vecchio cassetto ritrovato. È, per concludere, un piccolo tesoro emotivo che supera la portata di qualunque messaggio digitale.
Tutti gli indirizzi perduti, di Laura Imai Messina e Il meraviglioso ufficio postale di Toten, di Asako Horikawa ci ricordano proprio il valore poetico e trasformativo della parola scritta su carta. Le lettere di cui si parla nei due romanzi- di volta in volta piene di speranza, pentimento, memoria o gratitudine- investono sconosciuti, defunti e perfino sé stessi, sempre evidenziando quanto sia sottile il confine tra ciò che si comunica e ciò che invece resta segreto. Ambientato sull’isola di Awashima, il primo di questi due libri, racconta di un piccolo ufficio postale che raccoglie lettere indirizzate a destinatari “irraggiungibili”: persone scomparse, sconosciute o addirittura mai contattate. Risa, la protagonista, ha il compito di catalogarle entrando in contatto con tutte le storie intime, le vicende nostalgiche e i semplici gesti di fiducia che portano al loro interno. Non ha importanza che manchino per sempre di una risposta, poiché diventano legame profondo tra scrivente e lettore, così come ponte tra passato e futuro.
Più fiabesca è invece l’opera di Horikawa, dove Abe Azusa trova inaspettatamente impiego in un ufficio postale collocato in cima ad una montagna, sospeso tra vita ed aldilà, dove le missive vengono inviate perfino ai defunti. Atmosfere malinconiche e oniriche qui si fondono ad una riflessione sul karma, sulla memoria e sulla comunicazione non convenzionale, suggerendo che le parole — anche quelle mai spedite — possono transitare tra i regni dell’esistenza.
Dopotutto, allora, cos’è che rende così affascinante scrivere e leggere una vera lettera? Forse la sacralità di un oggetto affettivo fatto per restare ed opporsi all’evanescenza ed alla fluidità cui siamo fin troppo abituati. Sicuramente l’intimità che ne deriva, poiché scrivere non è un atto neutrale che si riserva a chiunque, bensì segno di un legame profondo. La calma e la lentezza nascoste dietro alla scelta di tutte le parole, di tutte le pausa; una musica che contemporaneamente si crea e si ascolta. Ma a colpirci sopra ogni cosa sono l’attesa, la speranza e le persone dietro a ciascun pezzo di carta, che prende vita e forma proprio grazie a loro. I libri di Messina ed Horikawa ci ricordano con grazia e forza che la parola scritta sa toccare il cuore e non è solo nostalgia, ma anche bisogno: di essere visti, ascoltati, ricordati. Scrivere una lettera è sempre un piccolo atto di coraggio, tanto quanto riceverla un privilegio raro. In entrambi i casi avremo davanti un frammento che vuole resistere, una scintilla di umanità carica di promesse fragili e durature allo stesso tempo.