The Velvet Sundown: la band che non esiste conquista Spotify
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The Velvet Sundown: la band che non esiste conquista Spotify

Nessun musicista e nessun volto reale perché creata completamente con l’Ai. C’è il rischio che un futuro dominato da musica generata da Ai, che “suona giusta” ma non “dice niente”, possa portare a una strana standardizzazione delle emozioni

The Velvet Sundown: la band che non esiste conquista Spotify
The Velvet Sundown
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5 Luglio 2025 - 18.33 Culture


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di Marcello Cecconi

Nessuna chitarra, nessun batterista, nessuna coscienza tormentata a scrivere testi nella notte, solo codice e creatività sintetica. Questa è l’essenza del caso The Velvet Sundown, un progetto musicale che ha superato oggi i 930mila ascoltatori mensili su Spotify pubblicando esclusivamente brani creati con Suno, una delle piattaforme di intelligenza artificiale musicale più avanzate al mondo.

C’è da chiedersi cosa resta di una band se mancano i musicisti, gli strumenti, il sudore in sala prove, se le voci sono sintetiche, le melodie generate da algoritmi e se persino le facce nella foto profilo non appartengono a nessun essere umano reale. Un tempo avremmo gridato al miracolo o allo scandalo, ma oggi, nella torrida estate del 2025, questo fenomeno non sorprende più.

Certo non possiamo non interrogarsi, anche in modo piuttosto diretto, quando scrollando il profilo Spotify dei Velvet Sundown si notano quei volti che paiono riemergere da qualche film di Dario Argento degli anni Settanta. Affinando lo sguardo si capisce che è roba da Ai e, poi, non si trova nessun tour e interviste o, comunque, narrazioni di formazione del gruppo. La band, in senso stretto, non esiste ma la loro musica c’è ed è in linea con le tendenze rock degli anni Settanta e ha la forza commerciale nel contesto musicale di oggi di finire in playlist delle piattaforme e in trending su TikTok.

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Dust and silence

Il concetto di “Aura” fu introdotto dal sociologo Walter Benjamin già negli anni Trenta per descrivere la perdita di unicità, autenticità e autorità dell’opera d’arte tradizionale attraverso le innovazioni tecnologiche della fotografia e del cinema di allora. Quel concetto oggi sfuma sempre più nelle diavolerie dell’algoritmo. Per alcuni, l’Ai è solo un nuovo strumento, come lo furono i sintetizzatori o quello strumento musicale elettronico progettato per generare ritmi e pattern ritmici chiamato drum machine, mentre per altri, è l’inizio della fine di un legame emotivo e culturale tra artista e pubblico.

La tecnologia corre più della luce insieme al nostro desiderio di innovare. La direzione è ormai tracciata ma non possiamo calpestare l’idea che la musica è emozione, esperienza, relazione. A noi umani resta il dovere-diritto di scegliere come viaggiare in quella direzione. Apertura alla creatività ma con quella prudenza che ci permette di non perdere di vista ciò che ci rende umani, anche quando danziamo con le macchine.

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La vicenda dei Velvet Sundown è solo l’ultima anche se eclatante di una serie di casi che sollevano interrogativi etici e legali sempre più urgenti nell’ambito dell’uso dell’intelligenza artificiale nella creazione artistica. Cominciamo dal chiedersi a chi vanno i diritti d’autore se una canzone, testi, melodia e arrangiamenti, sono frutti dell’Ai.  Alla piattaforma Suno che l’ha generata, all’utente che ha inserito i prompt (input testuale fornito al modello di linguaggio di Suno per ottenerla) oppure al programmatore che ha scritto il codice? Insomma, poiché Il copyright tradizionale è costruito attorno all’idea di “creazione umana”, con l’Ai, questa definizione vacilla. E i legislatori sono ancora in grande ritardo.

Molte Ai musicali, come Suno, si allenano su enormi quantità di brani esistenti in rete e anche se non copiano direttamente, assorbono stili, strutture, timbri. Dove troviamo il confine tra ispirazione e plagio? Ci sono musicisti che hanno già denunciato un’“appropriazione indebita algoritmica” del proprio stile.

L’autenticità rischia di perdere il proprio valore perché se l’intelligenza artificiale può solo imitare emozioni, scrivere testi profondi e persino imitare la voce di un cantante, non potrà mai vivere l’esperienza che sta raccontando. C’è il rischio che un futuro dominato da musica generata da Ai, che “suona giusta” ma non “dice niente”, possa portare a una strana standardizzazione delle emozioni.

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Forse il vero futuro etico dell’Ai non sta nel creare “al posto dell’artista, ma insieme a lui.

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