Gli “host” sono sempre di più e i loro guadagni schizzano. E chi cerca casa annaspa

Continua inesorabile il trend che vede sempre più proprietari preferire affittare per brevi periodi. Il possibile aumento della cedolare secca in merito sta spaccando la maggioranza. Ma davvero versare al fisco qualche euro in più è un affronto alla libertà d’impresa? I dati.

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Agostino Forgione Modifica articolo

6 Novembre 2025 - 11.12 Culture


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350mila. Secondo il centro di ricerca Future Urban Legacy Lab del Politecnico di Torino tanti erano gli host attivi nel 2024 in Italia su Airbnb. Numeri che delineano una nuova categoria sociale cresciuta incessantemente negli anni post covid, quella dei soggetti ospitanti. Un fenomeno comune a tutti i paesi occidentali che sta ridisegnando il volto delle nostre città e stravolgendo le dinamiche più consolidate, esacerbando gli effetti della crisi abitativa già congenita al nostro Paese.

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L’ultimo report diffuso dal sopracitato centro, dal tiolo “Chi gestisce davvero il mercato di Airbnb” fornisce un quadro esaustivo dell’andamento del fenomeno dal 2017 al 2024, utile per affrontare ulteriori considerazioni. Da questo emerge come il numero di unità abitative adibite a tale scopo sia passato dalle 494.129 del 2017 alle 755.018 dell’ultima rilevazione. Un incremento del 52% che ha visto salire il numero di posti letto complessivi da 2.102.895 a 3.210.432. Ad aumentare sono state anche il numero di notti pernottate in media, con un aumento del 50%, così come la tariffa giornaliera, gonfiatasi degli stessi punti percentuali. Un rialzo che va ben oltre il tasso di inflazione generale accumulato negli anni in esame. Gli host più comuni sono quelli di piccole dimensioni, che gestiscono uno o due appartamenti (il valore medio è di 2,15 pro-capite), sebbene a trarre maggiori guadagni per abitazione siano quelli grandi che ne offrono dieci o più. Il ricavo medio per unità abitativa? 6.079 euro nel 2017 e 12.732 nel 2024. Più che raddoppiato.

Numeri che trovano riscontro nel cambiamento delle preferenze e delle modalità di villeggiatura che stiamo vivendo, con sempre più turisti che preferiscono alloggiare in case o appartamenti anziché in albergo. Mentre fino a un decennio fa l’alloggio privato costituiva “il piano b”, quello da perseguire solo nel caso non si trovasse una stanza libera, oggi è spesso l’opzione primaria. Le motivazioni sono plurime: si va da una maggiore flessibilità e al non dovere sottostare alle più rigide regole delle strutture ricettive fino alla – non scontata – possibilità di poter cucinare da sé i pasti. Circostanza, quest’ultima, che strizza l’occhio alla miriade di viaggiatori che dispongono di un budget limitato.

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È in questo panorama che si inserisce una molto discussa riforma sugli affitti brevi, ancora in discussione e presente nella bozza della nuova legge di bilancio. Questa aumenterebbe la cedolare secca dal 21% al 26% anche per il primo immobile messo in affitto, fino ad un massimo di quattro immobili locati. L’aliquota ridotta al 21% resterà in vigore esclusivamente per i privati che affittano un solo immobile senza alcuna intermediazione, inclusa quelle delle piattaforme online. Di fatto portare l’aliquota al 26% significherebbe tassare il settore analogamente a quanto lo sono gli investimenti finanziari, che versano la stessa percentuale di contributi.

I contrari alla riforma sono plurimi, in prima linea – ovviamente – i paladini della proprietà privata e della libertà d’impresa. “Io sono sempre per il rispetto della proprietà privata, per il fatto che ciascuno possa investire sul suo immobile, come meglio creda senza penalizzazioni o inasprimento di tassazioni” sono ad esempio le parole di Salvini in merito. Ma siamo sicuri che se venisse approvata avremmo a che fare con una riforma liberticida anziché semplicemente democratica?

In un articolo di Federico Fubini pubblicato sul Corriere della Sera viene evidenziato come attualmente un host che mette sul mercato due appartamenti, ricavando circa 24mila euro l’anno, ne versi nelle casse dell’erario solo 1.350 in più rispetto a un lavoratore dipendente che percepisce pari reddito. Una differenza quasi irrisoria che non tiene conto di come spesso un lavoro dipendente comporti molti più rischi e sia molto più faticoso. Lasciare l’aliquota così com’è significherebbe foraggiare i consolidati aspetti classisti e patrimoniali che contraddistinguono la società italiana, in cui i ricchi continuano a godere della propria ricchezza a scapito di chi non lo è.

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Rendere solo un po’ meno vantaggioso fittare il proprio appartamento per brevi periodi non rappresenta dunque un affondo ai proprietari immobiliari, ma solo una pallida misura volta ad arginare la crisi abitativa che stiamo vivendo. I fatti di via Michelino a Bologna di qualche settimana fa ne rappresentano un fulgido esempio. Famiglie che avevano sempre onorato regolarmente i canoni di fitto sfrattate brutalmente per far spazio a un bed and breakfast. L’ennesimo.

Trovare un equilibrio tra la vocazione turistica del nostro paese, il sacrosanto diritto alla libertà d’impresa individuale e il pure imprescindibile diritto all’abitare è mai come ora un nodo cruciale da sciogliere. Lasciarsi guidare esclusivamente dalle correnti del mercato si è dimostrato per l’ennesima volta non solo fallimentare, ma deleterio. Il turismo, per quanto bello, non è un diritto. Avere un tetto sopra la propria testa lo è.

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