Svelati i processi chimici di degrado che minacciano capolavori dell’arte moderna
Top

Svelati i processi chimici di degrado che minacciano capolavori dell’arte moderna

Gli scienziati sono riusciti a chiarire cosa sta offuscando la brillantezza del verde smeraldo, colore simbolo della pittura del XIX e XX secolo. 

Svelati i processi chimici di degrado che minacciano capolavori dell’arte moderna
Preroll

redazione Modifica articolo

22 Novembre 2025 - 16.13 Culture


ATF

Pubblicato su Science Advances e svolto sull’opera “L’intrigo” (1890) del pittore James Ensor, oggi conservata al Museo Reale di Belle Arti di Anversa (Belgio), uno studio apre la strada a nuove tecniche di conservazione preventiva.

Il verde smeraldo, basato su arsenito di rame, fu introdotto nel XIX secolo e subito apprezzato per la vivacità dei toni. La sua fragilità e scarsa durevolezza, però, non era un mistero: lo stesso Van Gogh annotò che tendeva a perdere luminosità in poco tempo. 

Il team di ricerca, è stato coordinato dall’Istituto di scienze e tecnologie chimiche ‘Giulio Natta’ (Cnr-Scitec) e dal Dipartimento di chimica, biologia e biotecnologie dell’Università degli Studi di Perugia, in collaborazione con l’Esrf (Sincrotrone Europeo di Grenoble), Desy (Sincrotrone di Amburgo) e l’Università di Anversa. Le analisi, condotte direttamente sulla tela, hanno combinato tecniche diagnostiche portatili e avanzati metodi ai raggi X. L’obiettivo era capire come luce e umidità intervengano sui materiali; “era già noto che il verde smeraldo si degrada con il tempo, – spiega Letizia Monico, ricercatrice del Cnr-Scitec – ma il nostro obiettivo era comprendere esattamente il ruolo della luce e dell’umidità in questo processo”.

Le indagini hanno messo in luce un doppio percorso di deterioramento: “L’umidità favorisce la formazione di arsenolite, un composto cristallino che rende la pittura fragile e soggetta a sfaldamento, mentre la luce provoca l’ossidazione dell’arsenico in superficie, creando un sottile strato biancastro che opacizza il colore originale” spiega Aldo Romani, docente dell’Università di Perugia.

Per selezionare le aree della tela più sensibili, gli studiosi hanno eseguito una prima mappatura macroscopica mediante strumenti non invasivi forniti dall’Università di Anversa e dal laboratorio mobile Molab, coordinato dal Cnr-Ispc. “Le tecniche non invasive molecolari sono strumenti essenziali, – ha sottolineato Costanza Miliani, direttrice ad interim del Cnr-Ispc – permettono di ottenere informazioni approfondite sui materiali senza prelievi, orientano in modo mirato il micro-campionamento e consentono di intercettare precocemente eventuali fenomeni di degrado”.

Successivamente, microcampioni selezionati sono stati analizzati ai sincrotroni Esrf e Desy per ottenere immagini e dati su scala sub-micrometrica. “Le analisi effettuate sono essenziali per questo tipo di studio, poiché sono le uniche in grado di fornire informazioni stratigrafiche specifiche sulla natura dei diversi composti di arsenico su scala micrometrica” spiega Marine Cotte, scienziata dell’Esrf.

Il confronto tra i campioni prelevati e provini artificiali invecchiati ha confermato che la luce è il principale fattore di rischio per “L’intrigo”, probabilmente così come per molte altre opere realizzate con lo stesso pigmento. Grazie alle strumentazioni avanzate è ora possibile monitorare con maggiore precisione l’evoluzione del degrado e intervenire prima che diventi irreversibile.

La ricerca, sviluppata nell’ambito del programma Changes finanziato dall’Unione Europea, punta a costruire nuovi protocolli di tutela per definire un modello di conservazione che non si limiti a intervenire sull’emergenza ma sappia prevederla e anticiparla.

Native

Articoli correlati