Netflix o Paramount? La differenza c’è
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Netflix o Paramount? La differenza c’è

Ciò che sta accadendo attorno a Warner Bros. Discovery non è una semplice partita industriale, ma una battaglia per il controllo della visione del mondo e dell’informazione nelle democrazie occidentali

Netflix o Paramount? La differenza c’è
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Marcello Cecconi Modifica articolo

18 Dicembre 2025 - 11.17 Culture


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La posta in gioco non è un dettaglio da poco. Sul piano comunicativo si prefigurano due scenari, che per dirla con espressione cara ad Aldo Moro, non sono convergenze parallele ma percorsi in opposizione. Mentre l’attenzione mediatica si concentra su miliardi, debiti e capitalizzazioni, la possibile offerta di Netflix su Warner Bros. Discovery, in competizione con quella di Paramount, racconta una storia molto più profonda e inquietante: chi deciderà cosa vedremo, come lo vedremo e se lo vedremo ancora insieme ad altri, in una sala cinematografica, o da soli, sul divano di casa davanti a uno schermo governato da un algoritmo.

Se dovesse prevalere Netflix, il messaggio è quello di un mercato che non ha bisogno di pluralità, ma di efficienza. L’eventuale integrazione di HBO Max e degli studios Warner Bros dentro la macchina Netflix rafforzerebbe un modello culturale già dominante dove il contenuto è ormai un flusso continuo dettato dall’algoritmo e non più evento atteso con data, ora, luogo. Anche il catalogo non è più proposta editoriale con un’identitaria visione del mondo ma un ambiente dove l’algoritmo sceglie in base al profilo dell’utente, il quale sarà soprattutto un dato prima che persona o comunità. Il cinema, la serialità, persino i grandi brand storici diventano ingredienti intercambiabili di un’unica esperienza standardizzata. Il rischio non è solo la concentrazione economica, ma la monocultura narrativa.

Se invece fosse Paramount ad avere la meglio, il quadro sarebbe diverso, o almeno consoliderebbe lo status quo. Come ha sottolineato “l’interessato” Pier Silvio Berlusconi, in un mercato già dominato da Netflix, Amazon e Disney, l’aggregazione tra Paramount e Warner Bros Discovery creerebbe un quarto peso massimo. Niente di rivoluzionario, s’intende, ma almeno un argine, anche se forse temporaneo. Dal punto di vista comunicativo significherebbe evitare la supremazia solitaria di Netflix e lasciare ancora spazio a strategie differenziate fra streaming, cinema e televisione. Con Netflix sempre più centrale, la sala diventa un contesto fastidioso residuo del Novecento svilendo sempre più la dimensione collettiva del cinema che si riduce a esperienza individuale. Quattro giganti non sono la concorrenza perfetta, ma sono meglio di tre quando uno di quei tre è già il numero uno incontrastato.

Quando la produzione, distribuzione e visibilità dei contenuti creativi finiscono nelle mani di pochissimi attori globali, e Netflix è il caso più avanzato, non siamo più di fronte a un semplice oligopolio industriale ma a una trasformazione strutturale dell’industria culturale e creativa. Perché anche se Netflix viene raccontata come uno spazio di grande libertà per gli autori, si tratta di una libertà circoscritta all’interno di parametri di performance che fanno auto-adattare l’autore alla limitazione del rischio creativo; si osa ma senza superare quei parametri.

In questo contesto le opere tendono ad assomigliarsi non perché manchino idee, ma perché il sistema favorisce quelle strutture narrative che garantiscono in anticipo un certo successo. Insomma, il fallimento dell’opera creativa, che è stata storicamente alla base di innovazioni culturali, è un lusso che oggi il sistema non può permettersi. Infatti, se accade che un contenuto non funziona subito viene rapidamente messo da parte senza dargli il tempo di costruirsi almeno una nicchia minoritaria ma fedele di spettatori.

Accade così che i contenuti guadagnano in accessibilità e scorrevolezza ma perdono in profondità. L’autore si trasforma progressivamente in fornitore e la carriera creativa si modella all’interno di un unico ambiente, con riduzione dell’autonomia e dell pluralismo reale delle voci. Il risultato che ne vien fuori è una cultura addomesticata, capace anche di affrontare temi forti ma attraverso narrazioni “digeribili” anche quando sarebbe necessario destabilizzare.

Il nuovo capitalismo smette di investire nella costruzione dell’immaginario e si limita a ottimizzare i flussi di capitale, di dati, di attenzione. Negli Usa, dove la forza di questo ecosistema è così potente, si orientano gusti e linguaggi che si esportano con rapidità in gran parte del mondo, svuotando progetti editoriali identitari e riempiendoli di operazioni patrimoniali. Risultato: diminuisce il reale pluralismo in una delle principali arene pubbliche della democrazia.

Il vero problema, però, non è scegliere tra tre o quattro giganti, ma capire se la politica intende ancora governare il rapporto tra media e potere, o se ha deciso di delegarlo completamente alle variabili finanziarie del nuovo capitalismo. Uno scenario dove la libertà di scelta del pubblico resta formalmente intatta ma sarà sempre più inaridita poiché si muove dentro confini sempre più stretti disegnati da pochissimi attori.

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