Con l'elezione di Leone XIV è fallita l'opa di Trump che voleva una chiesa cattolica nazionalista

L’obiettivo era fare proprio  come faceva Pechino, creare  cioè tante Chiese patriottiche, legate ai poteri politici possibilmente nazionalisti, a partire da quello trumpiano, incantato da quella teologia della prosperità

Con l'elezione di Leone XIV è fallita l'opa di Trump che voleva una chiesa cattolica nazionalista
Papa Leone XIV
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

9 Maggio 2025 - 12.26


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Uno spettro si aggira per i corridoi vaticani: la spettro del papa americano. E in America comanda Trump, non certo Martin Luther King, o Robert Kennedy. Non è un mistero che Washington avesse lanciato un’offerta pubblica di acquisto sulla Chiesta cattolica. L’obiettivo era fare proprio  come faceva Pechino, creare  cioè tante Chiese patriottiche, legate ai poteri politici possibilmente nazionalisti, a partire da quello trumpiano, incantato da quella teologia della prosperità per cui se sei ricco vuol dire che Dio ti ama, se sei povero vuol dire che lo hai irritato. Un vangelo tutto nuovo che doveva essere stampato e divulgato anche da Roma.

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Questo tentativo è fallito. Infatti papa Leone XIV, figlio di migranti come il suo predecessore, oltre ad essere statunitense   ha in tasca anche una cittadinanza  peruviana, il paese dove ha servito per tanti anni in remote diocesi di cui è stato vescovo missionario prima che papa Bergoglio lo chiamasse a Roma come prefetto della potente congregazione che si occupa dei vescovi.

Negli Stati Uniti lui c’è nato, ma chi ha salutato nella loro lingua affacciandosi dalla loggia delle benedizioni? Guarda un po’, ha salutato i sudamericani presenti in piazza, in uno spagnolo protratto e perfetto. Un papa trumpiano che nella sua prima apparizione parla in spagnolo, azzardo che non si era preso neanche il suo predecessore, è un segnale cristallino, indiscutibile. Ecco allora, altro che accettazione dell’offerta pubblica d’acquisto: negli Stati Uniti oggi non c’è più soltanto un potere, quello arrogante, ma anche un potere spirituale a lui “resistente”. E poi il papato a stelle e strisce è un papato che resta anche in America Latina, sudamericano.

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La pace che papa Prevost ha posto al centro del suo primo discorso pubblico, non è la pace dei forti proposta da Trump, non è la pace del più forte, che la impone, quasi con il noto “guai ai vinti” di romana memoria, ma è la pace di tutti e per tutti, “disarmata e disarmante”, la pace cioè del Cristo del vangelo che conosciamo noi, non di quello della prosperità, che conoscono solo Trump e i suoi. E questo Leone XIV lo ha detto con parole chiarissime, contrapposte al credo washingtoniano.

La continuità con Francesco, impossibile per un trumpiano,  emerge anche da quel poco che sappiamo del nuovo papa, in particolare da un’intervista, tra le poche che ha dato nei mesi trascorsi a Roma, nella quale il cardinale Prevost sottolineava che il vescovo, la materia di cui si occupava a Roma, non deve essere un principe, ma un servitore: tutt’altro che trumpiano, più bergogliano, direi. Così oltre alla sua storia vescovile, tutta vissuta da missionario in America Latina, si solidifica il tratto che più di altri lo avvicina al suo predecessore, il certificato di garanzia di non essere il dato allarmante per Trump: la Chiesa di Leone XIV è universale, globale, quanto quella del suo precedessore. Il nazionalismo non vi ha dimora, il multaletaralismo non potrà che essere un tratto caratterizzante; e tutto questo è decisivo nell’epoca della grande deportazione. Un uomo così, figlio di migranti, vissuto per anni decisivi in Perù, quando parla di pace per tutti, parla anche di pace per i migranti forzati, deportati da Washington e non solo, non parla solo di pace tra Stati. I 120 milioni di migranti sono uno dei popoli più numerosi al mondo, scacciati dai faraoni, ma senza terre promesse, ma muri respingenti.  

Si continua  così a scorrere il suo primo discorso e il non molto che si sa di lui ed emerge sulla dottrina sociale, marchio di fabbrica del suo pontificato visto che si è chiamato come l’autore della prima enciclica sociale, Leone XIII, che lui ha espresso idee in tutto simili al suo predecessore. Di più; a differenza del decano del collegio cardinalizio che ha preso in mano la Chiesa dal momento della morte di Francesco, pronunciando sia l’omelia funebre sia quella “pro eligendo pontifice”, il nuovo papa ha voluto subito citare la grande svolta avviata da Francesco, la trasformazione della Chiesa da Chiesa gerarchica e piramidale in Chiesa sinodale, cioè non più clericale, ma dove i laici cattolici sono coinvolti nei processi decisionali e nella gestione della Chiesa.

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Il decano, cardinale Re, figlio e prodotto fedele della visione dei depositari del potere romano, questa sinodalità nelle sue due omelie non l’aveva mai citata, mentre papa Prevost, l’americano, l’ha citata subito, rendendo evidente che si va avanti anche su questo decisivo aspetto, che molti speravano di archiviare subito. Chi vuole etichettarlo come prodotto di un compromesso tra “destra” filo-Trump e bergogliani moderarti sembra, dico sembra, esprimere il proprio desiderio più che la realtà da fuori visibile. Il compromesso che lo ha eletto è stato questo? Può essere, ma non è un fatto raro che un papa si discosti dagli auspici di chi ha creduto che si identificasse con i suoi “progetti”. 

Che la Chiesa cattolica faccia emergere oggi, in un mondo scombussolato e spaesato davanti all’ America trumpiana e ai suoi voltafaccia davanti a valori che ritenevamo consolidati, un’altra America, solidale, amica, amante della pace “disarmata e disarmante”, come ha detto papa Prevost, è la sorprendente novità. 

Ma è probabile che  non ci sia solo continuità. Sui temi che in Vaticano definiscono “sensibili”, come se quelli sin qui citati non lo fossero, cioè omosessualità, apertura ai divorziati risposati, fine vita e tanto altro, ci potrebbe essere nel nuovo papa più moderazione, più riflessività e qualche dubbio rispetto al suo predecessore al quale il mondo laico ha offerto e dato così pochi aiuti nel suo grande lavoro di rinnovamento e apertura ecclesiale. La “laicità” è stata più arcigna della Chiesa su questo negli anni passati, non ha apprezzato o capito fino in fondo quanto di epocale veniva detto e fatto dal Vaticano e ora potrebbe rendersene conto, come sempre con colpevole ritardo. Chissà. 

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La discontinuità con Francesco comunque c’è, emerge dall’abbigliamento. Papa Prevost ha rimesso sul suo corpo i simboli romani, imperiali, quel rosso a cui pontefici hanno sempre tenuto tanto per indicare una continuità con l’imperatore, con Roma-impero. Quel rosso Bergoglio lo aveva accantonato, alcuni dicono che lo abbia fatto dicendo “è finito carnevale”: non lo so. Certo quella pagina è archiviata, il papa torna sul suo trono, con una cultura di trono simbolo di servizio più che di potere, ma questo è. Dunque un papa più attento all’interno, agli equilibri, alle compatibilità, alle trame ecclesiali. Era necessario, probabilmente, per mettere a terra le grandi riforme bergogliane, renderle fatti ecclesiali concreti, realizzati. Questo è quel che a me sembra emergere. Di certo i laici, i cosiddetti woke americani, sono quelli che non hanno capito niente. Hanno contribuito a ostacolare il cammino Francesco. Speriamo che si sveglino. Non è mai troppo tardi.  

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