Reintrodurre la leva obbligatoria è una follia: più scuole e ospedali, meno supermen in mimetica

Dietro la retorica patriottica sulla leva obbligatoria si nasconde un progetto regressivo, inutile e costoso, che confonde educazione civica con disciplina militare.

Reintrodurre la leva obbligatoria è una follia: più scuole e ospedali, meno supermen in mimetica
Militari
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Seba Pezzani Modifica articolo

25 Maggio 2025 - 10.59


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Ogni volta che sento proferire la parola “patria”, mi viene un fastidioso formicolio allo stomaco. Ogni volta che il politico di turno ne pronuncia enfaticamente le sei lettere che la compongono per impostare una chiamata alle armi, un brivido di rabbia mista a spavento mi scuote da dentro. Della parola patria si riempiono la bocca coloro che, solitamente, non rischiano nemmeno lontanamente di doverla difendere e che, viceversa, trovano un evidente e scollacciato sollazzo nel tentare di imporre al prossimo un deferente signorsì alla leva. Immagino già di essere additato come un raccomandato che ha scavallato a suo tempo il servizio militare e che ciancia a vanvera di pace e concordia.

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Respingo, naturalmente, al mittente l’eventuale attacco, annunciando – strano ma vero – non solo di aver adempiuto ai miei obblighi di “bravo cittadino” quando ancora il tributo alle forze armate italiche era un dovere ineludibile, ma di averlo fatto per giunta con il grado di sottotenente di fanteria. Il che non è che mi renda una sorta di erede dei vari Cincinnato, Sun Tzu o von Clausewitz, ma può servire a fugare leciti dubbi. Proprio per aver visto dall’interno come (non) funzionano le cose nell’ambiente militare – anche se in un’epoca ormai considerata preistorica, quella della “naja” – credo di poter dare anch’io un contributo.

Il servizio militare non va reintrodotto. Anche solo pensare di farlo è un’idiozia. Pensare di farlo allo scopo (assai teorico e altrettanto finto, mi sento di dire) di “educare” il cittadino italiano medio è ancor più sciocco. Pensare di rafforzare il senso di identità nazionale attraverso il servizio militare – per giunta in un paese che ha tanti difetti, ma, quantomeno, vanta l’innegabile merito di non aver mai mostrato slanci bellici – è un po’ come pensare di rendere più propenso a un atteggiamento stakanovista un fannullone costringendolo a lavorare.

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Con la virtuosa differenza che, mentre essere scioperati non viene giustamente accolto con squilli trionfali di tromba – meglio una innocua banda di paese che una fanfara dei bersaglieri – non aver voglia di fare del male al prossimo e ancor meno di subirlo non mi pare così disdicevole. L’atteggiamento “maschio” – massiccio e incazzato, direbbe qualcuno – che tanto piace alle destre da tempi immemori è non solo naif ma persino patetico. D’accordo, sfociare nel farsesco a noi italiani talvolta capita, ma volere a tutti i costi inciampare e ritrovarci per legge in una fossa maleodorante di scemenze istituzionalizzate sarebbe diabolico.

Al sottoscritto, che il suo tributo obbligatorio alla patria lo ha versato, piacerebbe tanto chiedere ai vari Salvini & C se hanno idea di cosa significhi svolgere il servizio militare e se, soprattutto, in considerazione del peso che mettono sulle parole patria, senso civico, decoro, ecc, si sono mai chiesti cosa succeda in una caserma in cui si trovano rinchiuse, loro malgrado, decine di migliaia di giovani che non hanno la minima voglia di starci. Educazione? Decoro? Sbraco e spreco!

Qualche anno fa, furono in molti (tra cui il sottoscritto) a plaudire alla scelta di abbandonare il modello di difesa fondato sulla leva obbligatoria e di pensare a forze militari professioniste. Tornare indietro sarebbe una follia. Oltre che ridicolo. Mi spingo oltre: per principio, non sarei contrario a una forza militare europea rigorosamente di difesa. Anzi, fino allo scoppio della guerra tra Ucraina e Russia, l’avrei persino caldeggiata. Oggi non più. La voglia smodata di riarmo tenta sfacciatamente – senza riuscirvi – di mascherare la crisi di potenze industriali che vorrebbero rifarsi il trucco trasformando grandi aziende metalmeccaniche in difficoltà in fiorenti industrie belliche.

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Un paese come la Germania in cui, fino a un paio di anni fa, parlare di riarmo sarebbe stato come sventolare un drappo rosso davanti a un toro, oggi si imbaldanzisce e sfida il mondo ad accettarne il plateale riaffacciarsi sulle scene belliche internazionali, forte di un governo che dovrà inevitabilmente fare i conti con i sempre più potenti eredi di quel partito nazista che ha spinto il pianeta sull’orlo del baratro e la Germania dentro la voragine da cui solo la nascente Guerra fredda l’ha ripescata per la collottola. È un mondo alla rovescia quello in cui, in quella stessa Germania che ha rischiato di portare gli ebrei all’estinzione, oggi non si possono esprimere opinioni contrarie a Israele o solidali verso la questione palestinese.

Se per quello, non abbiamo neppure bisogno di guardare oltre confine: da noi sta diventando sempre più complicato esercitare il libero e sacrosanto diritto all’espressione del pensiero, con bandiere palestinesi confiscate come se fossero ordigni pronti a esplodere. E che dire della scelta di investire miliardi di euro dei contribuenti in armamenti in grado soltanto di prolungare le sofferenze di un paese come l’Ucraina, comunque destinato a una sconfitta militare certa? Kaja Kallas nelle vesti di Alta rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri ha un vizio all’origine che sta nella sua provenienza: il suo paese, l’Estonia, ha un odio viscerale per ogni cosa che sappia vagamente di Unione Sovietica. Di per sé, non una colpa. Ma certo non un buon viatico per un ruolo di mediazione, mai così importante come in questo momento nelle difficili relazioni tra Europa e Federazione Russa. Se per quello, nemmeno Benjamin Netanyahu dovrebbe essere il candidato ideale per dirimere le annose controversie con i palestinesi: non tutti sanno che suo fratello maggiore, Yonatan, fu l’unica vittima militare israeliana nel raid di Entebbe, Uganda, del 1976 nel corso del quale vennero salvati quasi tutti gli ostaggi presi in un dirottamento aereo da un commando del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Ma torniamo alla questione della leva obbligatoria, tanto cara alla Destra italiana e, soprattutto, al leader della Lega, Matteo Salvini. Dando un’occhiata ai suoi colleghi di partito e alla loro aria non si sa quanto “marziale”, qualche dubbio sul fatto che le sue idee bellicose siano condivise da tutti mi sorge. Si parlava di educazione di stato – un concetto da Cina maoista e Unione Sovietica stalinista, oltre che da Germania nazista e Italia fascista – e, dunque, un paio di aneddoti, siparietti di vita vissuta, possono stemperare il fastidio che penso di condividere con milioni di concittadini riguardo all’imbelle proposito di riaprire le caserme e riempirle di centinaia di migliaia di “najoni” recalcitranti.

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Che poi, a pensarci bene, per ragioni politiche, per quanto di segno opposto, non me la sento fino in fondo di oppormi al proposito: non credo che, se davvero una decisione in tal senso venisse presa dal governo attuale, tale gabinetto durerebbe lo spazio di due giorni in più. Agli italiani, si sa, meglio non toccare il portafoglio. Quello che a qualcuno sfugge è che, finché a indossare la mimetica e il basco è un bell’omaccione anonimo su un calendario delle forze armate, siamo tutti legionari.

Finché a fare la sparata a un raduno di Alpini su di giri all’ennesimo fiasco di vino è il Salvini di turno, ci si ride abbondantemente sopra. Quando, però, la cartolina arriva, il pensiero cambia e, magari, cambia pure il voto nel segreto dell’urna.

Avanti tutta con la leva obbligatoria e i canti di battaglia allora.

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Nel frattempo, sentite la prima cosa che mi disse il comandante della compagnia a cui, da sottotenente di prima nomina, ero stato assegnato

«Tenente, lei sa qual è il suo compito primario, vero?»

Il capitano doveva aver notato l’improvviso corrugarsi della mia fronte, perché non attese che io pescassi una risposta banale, fornendomene una lui stesso. «Lei deve impedire ai nostri ragazzi di sbracarsi!»

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Alla faccia del nobile insegnamento dell’arte della guerra. In effetti, le camerate erano per lo più sature di un olezzo di umanità stanca, misto a quello di un’umanità “fumata”.

Siccome, però, l’andiamo dominante era che il servizio militare consentiva nel rendere il facile difficile mediante l’inutile, le ronde anti-sbraco erano solo l’antipasto.

Un’altra mattina, il capitano – una splendida persona, va detto – mi prese da parte e mi catechizzò a dovere.

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«Tenente, ecco gli ordini di stamattina che lei dovrà debitamente comunicare alla truppa. Vede quella catasta di legname nell’angolo del piazzale?»

Domanda oziosa: l’avrebbe vista persino Ray Charles.

«Ebbene, i soldati dovranno trasferirli nell’angolo opposto.»

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Domanda oziosa, certo, ma incombenza ancor meno utile. Spostare travi che, almeno per il momento, non servivano a nulla in un posto diverso in cui avrebbero continuato a non servire a nulla aveva tutta l’aria di essere una scusa per far muovere il culo a ragazzi che il culo lo avrebbero mosso pure con piacere per fare qualcosa di sensato, qualcosa che gli trasmettesse la convinzione di svolgere un servizio per la comunità.

Si sa, tutto ciò che sa di imposizione ha ottime probabilità di rivelarsi un fallimento assoluto. Ora, non voglio dire che di cose edificanti in una caserma non se ne verifichino mai. Anche ciò sarebbe inesatto e pure tendenzioso. Ma, in un momento di grande difficoltà economica come quello attuale, in un’epoca in cui il servizio militare di massa non serve a una beata fava e, ancora più, in una fase della storia europea in cui i tono andrebbero abbassati e non enfatizzati e le finanze risicate andrebbero investite davvero nei settori che necessitano di un aiuto, pensare alla reintroduzione della naja è una sciocchezza sesquipedale.

Più scuole, più ospedali. Meno somari, meno malati.

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E meno supermen in mimetica.

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