Umberto Eco, il dolore e la dignità: riflessioni sulla fragilità, le cure palliative e il senso della vita

La riflessione sul male, sul dolore e sulla sofferenza è da sempre una delle questioni o, meglio, “la questione” cruciale nel cammino dell’uomo.

Umberto Eco, il dolore e la dignità: riflessioni sulla fragilità, le cure palliative e il senso della vita
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27 Luglio 2025 - 14.04


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di Antonio Salvati

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Umberto Eco può essere annoverato tra quegli autori la cui lettura procura non solo un benessere fisico, autori che favoriscono in noi uno spazio interiore vitale che dobbiamo riscoprire ogni volta e che rende la nostra esistenza più ricca culturalmente, più bella e più intensa.

È stata pubblicata recentemente una sua lectio magistralis – tenuta nel 2014 in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi dell’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa (ASMEPA) – in Umberto Eco, Riflessioni sul dolore, (La nave di Teseo, 2025, pp. 62, € 6).

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Eco appartiene a quegli scrittori che amano stabilire il nesso, la cucitura tra la nostra vita e le parole su cui la vita poggia. Infatti, al termine del libricino Eco non esita a sostenere che il malato che non conosce la natura della propria malattia soffre di più. «Sapendo cosa stiamo subendo, vi sappiamo resistere meglio. La conoscenza, vorrei dire la cultura, alza la soglia della sofferenza» scrive Eco, che crede ancora al valore di una parola come “educazione”, che oggi si preferisce evitare (così come il dolore). Precisando che «questa componente culturale non vale, credo, per i dolori insostenibili», per i quali ci affidiamo alle virtù delle cure palliative.

La riflessione sul male, sul dolore e sulla sofferenza è da sempre una delle questioni o, meglio, “la questione” cruciale nel cammino dell’uomo. La ricerca del “perché” delle cause del dolore e della sofferenza risuona sempre forte nel cuore dell’uomo.

La conoscenza dei significati del dolore, delle diverse tipologie del dolore umano, della distinzione tra “dolore sintomo” e “dolore sindrome” nonché della differenza tra dolore e sofferenza, è fondamentale per comprendere il dato umano del limite e della fragilità. Il dolore è un termine che, in campo medico, è solitamente indicato come sofferenza fisica. Tuttavia, il suo vero significato deve essere allargato alla sofferenza emotiva, spirituale, sociale, affettiva.

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Pertanto, occorre considerare questa accezione larga del termine e non concepire il dolore unicamente con l’obiettivo di sollevare il male fisico, il che implica competenze tecniche più che umanistiche. In tal senso, il dolore è espressione di un bisogno che richiede un approccio globale di cura.

In base a questo bisogno, emergono i risvolti della necessità di una medicina che si prenda cura della persona con la malattia e non unicamente della malattia.

C’è stato un tempo nella storia dell’umanità – ha ricordato Eco – in cui il dolore, non solo quello morale ma in particolar modo quello fisico, aveva connotati religiosi e culturali diversi da quelli odierni: ciò avviene con il cristianesimo, «nel quale il modello di vita diventa il Cristo sofferente, il cui dolore assume una funzione salvifica. La salvezza consiste appunto nell’imitatio Christi. Il problema allora non è liberarsi dal dolore, ma accettarlo e farlo fruttare come strumento di redenzione».

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Ne I demoni Dostoevskij scrive che «un dolore autentico, indiscutibile, è capace di rendere talvolta serio e forte, sia pure per poco tempo, anche un uomo fenomenalmente leggero; non solo, ma per un dolore vero, sincero, anche gli imbecilli son diventati qualche volta intelligenti, pure, ben inteso, per qualche tempo».

Nel Novecento Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere esprime un disperato e impotente rifiuto del dolore: «[…] la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente […]. Soffrire limita l’efficienza spirituale […]. Soffrire è sempre colpa nostra […]. Soffrire è una debolezza». Salvo poi annotare: «Almeno un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze». Magra consolazione, per lui, se – osserva Eco – le belle sentenze non l’hanno fatto ritrarre dal proposito del suicidio.

Oggi – com’è noto – i cristiani sono profondamente impegnati nella riflessione relativa alla radicale fragilità della nostra condizione umana che emerge più volte nel corso della nostra esistenza, sia individuale, sia comunitaria/istituzionale.

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La storia dell’umanità è costellata da profondissime crisi, come tutti noi abbiamo sperimentato con la recente pandemia, la quale, per usare le parole di Mons. Vincenzo Paglia, «ha toccato con precisione chirurgica tutte le nostre fragilità».

È vero che oggi, rispetto a un passato nemmeno troppo lontano, viviamo di più e meglio. Ma non possiamo ignorare la tanta vulnerabilità che ancora accompagna il genere umano, a volte in forme sconosciute nelle epoche passate.

Paglia ha riflettuto spesso sul tema del dolore, soprattutto in relazione alla fragilità umana e alla cura dei malati. Egli ha sottolineato l’importanza delle cure palliative come forma di accompagnamento e presa in carico della sofferenza, sia sul piano medico che spirituale, difendendo l’umano di fronte a derive eutanasiche.

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In altre riflessioni, Paglia ha evidenziato come il dolore, e la fragilità in generale, possano diventare un “magistero” che invita alla solidarietà e alla condivisione della sofferenza. Paglia ha anche denunciato la scandalosa facilità con cui, nelle situazioni di malattia grave, avanzata, di terminalità e, purtroppo, in forme sempre più allargate di disagio esistenziale, il valore della vita umana – o meglio, della dignità di ogni persona umana – viene messo in discussione da quella “cultura dello scarto” che papa Francesco non cessava di denunciare.

È quanto mai opportuno attirare l’attenzione e sollecitare una riflessione sul tema della dignità umana nel contesto delle trasformazioni culturali in cui viviamo. Consapevoli del fatto che, nella discussione intorno alle circostanze – azioni, dichiarazioni, regole – che pretendono di trovare giustificazione nella tutela della dignità umana, si trovano collocate posizioni molto diverse, e addirittura opposte.

Per esempio, in nome della dignità del morire si sostiene la legalizzazione dell’eutanasia. Per Paglia la dignità umana, l’eutanasia e il suicidio assistito si appellano a un «concetto errato di dignità umana per rivolgerlo contro la vita stessa».

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Il rischio «di non reagire adeguatamente alla edificazione di una società indegna è reale. L’enfasi sulla dignità del singolo paradossalmente toglie attenzione alla dignità della comunità, del legame sociale».

Su questi temi è tornato giorni fa sulle pagine del quotidiano Avvenire Mario Marazziti, noto rappresentante della Comunità di Sant’Egidio, che – in un tempo in cui le idee sulla vita, in una società in grande trasformazione, di solitudini e paure crescenti, cambiano – ha avvertito che nel dibattito pubblico su temi come quello dell’eutanasia, suicidio assistito, morire con dignità, dolore e modi per combatterlo, occorre considerare che siamo di fronte a milioni di storie diverse.

Però, «è come se diventassero una, quella del momento. Ma non è così». Marazziti sostiene che può aiutarci riguardare la legge 219/2017, quella sulle Dat, la “grande sconosciuta”. È una «legge di diritto mite, che non norma tutto ma offre strumenti per umanizzare il morire senza chiamare la morte. E combatte il dolore, il grande nemico, fino a renderlo un obbligo di stato». Per dare al paziente la parola decisiva senza togliere al medico la sua responsabilità.

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Fosse stata in vigore già nel 2006 Piergiorgio Welby avrebbe potuto rifiutare legalmente il sostegno vitale senza dover passare per una morte spettacolarizzata in un Paese diviso. Sulla vita e sul morire – sottolinea Marazziti – il Paese andrebbe ricucito e non diviso.

“Lasciatemi andare” e “fatemi andare”: domande così umane che apparentemente sembrano uguali, ma non lo sono: la linea tra le due è sottilissima. Ancora più difficile è tracciarla per legge.

Perché – occorre sottolinearlo con forza – quello che per alcuni non è più vita, “ma che è vita questa, prigionieri di un corpo bloccato e attaccato a una macchina?”, per altri – spiega Marazziti – «può essere un tempo diverso, pieno di prove, ma anche, a volte, un incredibile tempo di relazione, tenerezza, comprensione di sé e degli altri anche quando di vita ce ne sta pochissima, rimasta nelle dita o negli occhi».

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La spettacolarizzazione di una morte può creare grande partecipazione in un tempo in cui davanti a milioni di innocenti che muoiono e di anziani soli come naufraghi non si prova più niente, assuefatti».

Non è facile – è vero – riflettere serenamente su questi temi soprattutto quando si ripetono rozzamente affermazioni come «La mia libertà finisce dove incomincia quella dell’altro» oppure «La mia vita dipende solo ed esclusivamente da me». Per poi arrivare a legiferare sulla spinta delle emozioni – e arrivano a cadenza regolare, nove volte in sette anni – e sui casi estremi.

Del resto, la Corte ha invitato a colmare una assenza, non per introdurre il suicidio assistito, ma per dare la possibilità di non sanzionare chi assecondi, in casi molto circoscritti.

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Su questo – per Marazziti – non ci possono essere vincitori e vinti, perché un metodo “muscolare” lascia solo vittime.

Paglia invita a considerare opportuno aprire una nuova stagio­ne per la fraternità universale nel nostro pianeta: «non si tratta di un sentimento di benevolenza universale, che spesso coin­cide praticamente con un sogno di libertà in cui ciascuno si fa “i fatti propri”». Si tratta di concepirsi come soggetti legati da una sincera disponibilità per il proget­to comune di una «convivenza in cui ciascuno è orgoglioso di contribuire alla protezione e alla riuscita di una vita decente e sostenibile».

Mai come oggi – e la pandemia ce lo ha dimostrato – la relazione di cura vicendevole si presenta come il paradigma fondamentale della nostra con­vivenza.

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Si chiede di morire perché si soffre. La legge 38 sulle cure palliative è del 2010. E nel 2017 abbiamo sancito il dovere del SSN di fornire una adeguata terapia del dolore anche a chi rinunci alle cure e voglia tornare a casa da un ospedale.

Non lasciare soli nella disperazione del dolore è un obbligo della società. Come lo sono per i cristiani il rifiuto tanto dell’accanimento che della desistenza terapeutica.

I cristiani in Italia – è stato giustamente osservato – non sono il partito del dolore. Ma il diritto alle cure palliative, a essere protetti dal dolore, che riduce la paura e la domanda di “farla finita”, non è ancora per tutti: è una priorità nazionale, ancor prima che normare alcuni casi complessi e, per fortuna, casi-limite e limitati.

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Si chiede di morire anche perché non ci si piace più, non ci si “riconosce” più, e quella non sembra più “vita”. Questo, diciamocelo chiaramente, dipende molto dalla cultura che si ha, la vita che si è fatta, gli altri attorno. Per alcuni è insopportabile, per altri, è un pezzo di vita prezioso in un altro modo, se diventa relazione.

Una società – per dirla con Marazziti – che aborre la dipendenza dall’altro e «ha poche parole sulla malattia, ne ha tante, invece, sul wellness, l’efficienza, la non dipendenza, mentre siamo sempre più interdipendenti: e così si delega allo stato quello che dello stato non è».

La legge 219 umanizza il morire quanto si può, favorisce la riduzione dell’isolamento e alimenta una cultura dell’accompagnamento. Ricostruisce l’alleanza medico paziente.

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Pochi conoscono l’art.2 al comma 5 della legge 219: «Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati.

In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente».

Una norma che aiuta a morire, ma in prossimità del morire, e quando la terapia del dolore non si riveli efficace.

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Abbiamo veramente bisogno di altri testi legislativi? Di altre polemiche e inutili prove di forza?


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