Il Vangelo odierno: In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17, 5-10 – XXVII/C).
La letteratura ha molti riferimenti al rapporto servo-padrone. Gesù accoglie in questo brano quello che è il sentire comune: il servo ha degli obblighi verso il padrone e questi non ne ha verso il servo, nemmeno quello della gratitudine. Siamo servi; per dare più forza alle parole, dovremmo dire “schiavi”, come scrive Paolo nella lettera ai Romani (1, 1: doulos che vuol dire schiavo in greco). E il nostro padrone è il Signore. Verso di Lui abbiamo solo doveri e non possiamo avere nessuna pretesa.
Il concetto di “servi inutili” – ci dicono i biblisti – andrebbe tradotto più con “servi non meritevoli di ricompensa”. Ed è proprio qui il punto: molto del nostro lavoro, nella Chiesa come nel mondo, aspira a una ricompensa, cerca gratitudini a ogni costo. Sembra quasi che la finalità del tutto sia diventata il fatto che qualcuno ci dica grazie, ci ricompensi in maniera materiale o ci gratifichi in maniera emotiva e intellettuale; oppure, ancor peggio, facciamo qualcosa per un interesse di qualsiasi genere (fisico, intellettuale, emotivo, relazionale, economico, religioso). Gli anglosassoni direbbero che stiamo diventando “self promoting”, promotori di noi stessi. Abacuc ricorda che “il giusto vivrà per la sua fede” (2, 4); noi, invece, spesso viviamo perché altri ci dicano bravi, perché nutrano noi e la nostra vanagloria o viviamo per accrescere interessi, spesso anche non leciti.
Gesù la pensa diversamente. Siamo schiavi. Il fine del nostro lavoro non è la gratificazione e la ricompensa ma è la gloria di Dio e il bene di quelli che serviamo. In altri termini il fine, il “telos” direbbero i greci, del nostro lavoro è Dio e la Sua gloria e, in Lui, il bene di quelli che serviamo. Il sentirsi servi non meritevoli di ricompensa è direttamente proporzionale all’intima consacrazione alla Sua maggior gloria. Lavoro per Lui e solo per Lui. Facile a dirsi, difficile a viversi, anche nei nostri ambienti dove il lavoro qualche volta è schiavo di logiche utilitaristiche o personalistiche.
In questo ci dobbiamo aiutare gli uni gli altri, specie quando dobbiamo ringraziare qualcuno per la sua attività o per il bene che ci ha fatto e ci fa. Il centro non sono io o l’altro, ma solo e sempre Dio. Quindi il grazie a un amico, deve essere accompagnato con un grande, più grande di tutto il resto, grazie a Dio, una lode a Lui. Ricordiamo quando Gesù ci invita a non essere come i farisei, che non credono proprio perché si scambiano gloria gli uni gli altri e non la danno a Dio. “E come potete credere – afferma Gesù – voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5, 44).
Il rendere gloria a Dio per tutto – la vita, i parenti, gli amici, il lavoro, il bene che riceviamo dagli altri, il creato e ogni bene – è prova di grande maturità umana e cristiana. Si diventa autenticamente servi. Profondamenti sereni, in pace con se stessi, con gli altri e la natura.