Un amico, per cui nutro grande rispetto, soprattutto per tutto quello che fa intorno alla sua lingua madre, lo yiddish, mi mette in guardia sulla manipolazione dei militanti anti sionisti sul trattamento degli ebrei.
Prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, mentre un altro amico, che generalmente mi sostiene, sia per quello che dico sull’Ucraina che sulla Palestina, si rifiuta di ammettere che la situazione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è paragonabile a quella dei prigionieri ucraini nelle carceri russe. Questo rifiuto di ammettere ciò che è dell’ordine della verità mi riporta alla mente ricordi che risalgono prima della mia nascita, ma che, di fatto, sono diventati miei per forza segnalati e ripetuti, perché fondatori.
Mio nonno è stato un militante comunista dal 1920 al 21 in Polonia, e se posso scrivere quello che scrivo qui oggi, è per questo, perché è stato espulso dalla Polonia dopo una permanenza in carcere per attivismo politico, e così la sua famiglia si è dovuta nascondere in Francia.
Mio nonno ha avuto il dolore peggiore del mondo ammettendo che i campi di Stalin esistevano davvero, così come zio Emilio.
Le sue argomentazioni, che mi sono state riportate da papà anche lui nettamente di sinistra, erano di due ordini.
Il primo è che non è stato possibile, perché l’Armata Rossa aveva salvato il mondo contro Hitler. Quindi, non potevano esserci campi , non dico paragonabili a quelli di Hitler, quel confronto era all’ordine dell’impensabile, ma campi dove morirono milioni di persone.
L’altra argomentazione era ancora più forte:
chi ha detto che ci sono campi in URSS? I nemici politici.
Persone con cui non ha mai avuto niente a che fare, persone con cui ha combattuto per tutta la vita. Se, loro, dicevano che, la cosa fosse chiara, era un’arma propagandistica. E questo, soprattutto perché, sì, ci sono stati degli abusi, ad un certo punto, da quando il XX Congresso li aveva denunciati, e passo alle tragiche, terrificanti discussioni che questo rapporto aveva provocato nel Partito, non nei suoi leader, ma negli attivisti di base, ma Marchais, per il quale aveva poco rispetto, spiegò che l’equilibrio del socialismo in URSS era “globalmente positivo”.
Ammettere che il paese in cui abbiamo riposto tutte le nostre speranze, per le idee di cui abbiamo militato tutta la vita, idee generose, altruiste, se una cosa è certa, è stata questa: l’altruismo totale dei militanti di base, la loro totale generosità, la loro dedizione, questo avrebbe distrutto la sua intera vita.
E ho visto mio nonno andare in depressione.
Di fronte a mio padre, con il quale aveva grandi conflitti, non legati alla politica, mio padre era quello che veniva definito un “comunista rinnovatore”, cioè uno che, mentre militante nel Partito giorno per giorno, mio nonno difendeva l’URSS a tutti i costi. E non era l’unico: aveva tanti amici della sua età che dicevano la stessa cosa. L’esperienza comunista in URSS, nonostante tutti gli ostacoli posti dal capitalismo globale, era stata un successo, gli abitanti dell’URSS vivevano felici, la medicina era gratuita, non c’era disoccupazione. E le dispute politiche tra lui e mio padre erano spesso molto violente verbalmente.
Ma vi ricordate il processo Kravtchenko, fine anni 40?
Kravtchenko aveva, nel bel mezzo della guerra, disertato, è rimasto negli USA dove era stato inviato, e, sì, infatti, le sue rivelazioni del terrore stalinista erano coperte dalla propaganda tedesca.
Il Partito Comunista aveva scritto che era un agente della CIA, e Kravtchenko aveva presentato un processo in Francia, un processo per diffamazione. E, ve lo giuro, un sacco di persone, non solo comunisti, e lontane, pensavano che Kravtchenko che raccontava del sistema terroristico che governava in URSS fosse un agente americano.
Il punto centrale dell’accusa era un piccolo dettaglio.
Andre Wurmser, che era sul banco dell’imputato, e ne andava molto orgoglioso, aveva posto a Kravtchenko una domanda: “Come finisce “La casa delle bambole”? “ Qual è il legame? Te lo chiedi? Kravtchenko parlava dell’opera di Ibsen nel suo libro, e non era riuscito a rispondere a Wurmser, che, trionfalmente, aveva pianto che era la prova che il suo libro era stato scritto dalla CIA, e che lui non era altro che un burattino.
Il problema è che “La Maison de Doll”, in russo, non ha questo titolo, l’opera si chiama “Nora”, dal nome dell’eroina. E che nessuno dei traduttori presenti al processo lo sapeva…
E poi, soprattutto, chi erano le persone, vittime dei campi, che venivano a testimoniare? Erano tutte persone che erano state deportate in Germania e chi, nel ‘45 si trovava in aree controllate dagli Alleati, aveva “scelto la libertà”.
E quindi, quello che dicevano poteva essere solo manipolazione della CIA.
(questo riguarda anche la messa al potere di Hitler, un triumviro: America, Germania e Inghilterra)
Pensando a questo mentre leggo le reazioni alla mia ultima considerazione. Sì, chi denuncia la tortura nelle carceri israeliane è spesso nemico, persone con cui, io stessa, spesso non ho nulla in comune.
Ma il fatto è che i fatti ci sono.
Fatti, e dico, sguardi. Gli stessi sguardi, e sono quegli sguardi, assenti, terribili, come da tutto il mondo, che fanno più paura. Lo stesso suppongo, che quelli di chiunque verrebbe improvvisamente rilasciato da un carcere del genere, ovunque essa sia, mentre quella prigione esiste ancora, e il regime che lo alimenta sta fiorendo. Questo è lo sguardo che ho.
Cosa dice quello sguardo,
nel caso di Israele, visto che, sulla Russia di Putin, le cose sono chiare, il che non impedisce ai FLists di sostenere la Russia contro la NATO.
Dice che il sogno di una patria ebraica in cui essere pacifici e in democrazia, quel sogno, quindi, non esiste più, perché, i miei amici lo capiscono perfettamente, se l’esistenza di Israele è basata sull’ingiustizia fatta agli altri, non ebrei, beh, Israele è ingiusto, e io non riesco a dormire in pace.
Cioè, ci tornerò sempre, una domanda semplice, e, sì, nel profondo, Dostoevskij:
la sicurezza di un gruppo può basarsi sulla sicurezza di un altro?
La risposta in termini morali è no.
Politicamente, l’ho ripetuto, è un’altra cosa.
Israele, a dir poco, non ha fatto nulla per promuovere lo yiddish, al contrario. E per motivi cruciali:
Serviva una lingua nazionale, e una sola lingua nazionale, in realtà è molto più complicato, ovviamente, visto che chi arriva in Israele parla loro la sua lingua, e quel russo, per esempio, è una delle lingue più diffuse.
Una lingua nazionale, e una dottrina nazionale: non le persone che, dicevano, soffrono senza fare nulla, ma l’ebreo forte, l’ebreo armato. Ne ho scritto nel libro che sto concludendo: questa sorprendente conversazione, in inglese, tra Begin e Isaac Singer, inizia a rifiutare di parlare yiddish, perché non si poteva dire “prenditi cura di te” in yiddish… e lo sguardo di Singer davanti a questo…
Il fatto è lì.
Le carceri israeliane, soprattutto dal 7 ottobre, ma spesso prima, sono diventate quelle che sono. E qui, non più tardi di questa mattina, vedo, su molti giornali di tutta Europa, che Marwan Barghouti è stato picchiato nella sua prigione, e che oggi ha le costole rotte. Il fatto è che dovremo imparare ad essere ebrei, cioè, non possiamo farci niente, lo siamo, e allontanarci da Israele finché Israele è quello che è adesso.
Finché la dottrina razzista, nazionalista, mortifera che il sionismo è diventato dominato. E nient’altro che questo, per voltarsi, o diciamo provare ad analizzare le cause del disastro, e analizzarle contro se stessi, per assumere la propria solitudine, il proprio fallimento, che può volerci tutta la vita.
E può anche distruggerla
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