di Antonio Salvati
Nei meandri del tempo della forza, la Comunità di sant’Egidio continua a nutrire l’ambizione e il dovere di costruire assieme una “controcultura”, in controtendenza con il nostro tempo: la fine delle guerre e delle esecuzioni. In un clima bellico, di esecuzioni sommarie, di guerre come se fossero il modo normale di risolvere i problemi. È in corso un riarmo mondiale.
Manca l’immaginazione della pace. Si afferma, ai massimi livelli, tra gli stati, la legge del più forte. Per porre un argine a questa cultura di morte – un virus del nostro tempo – ieri nell’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera dei deputati, Sant’Egidio ha radunato numerosi ministri della Giustizia e rappresentanti di Paesi abolizionisti de iure o de facto (come Cambogia, Ciad, Marocco e Timor Est) insieme a Paesi mantenitori (come Pakistan, Somalia e Vietnam) per il quindicesimo Congresso internazionale dei ministri della Giustizia Non c’è giustizia senza vita. Una sfida ambiziosa da condurre insieme contro la pena capitale, simbolo – giuridicamente giustificato – della disumanizzazione del mondo.
Apparentemente la pena di morte svolge una funzione sociale. Rassicura. Fa credere che i più crudeli possono essere individuati e annientati. Copre le debolezze del sistema investigativo, l’incapacità di prevenire i crimini, come nei casi di terrorismo.
La pena di morte è un sistema che si propone come infallibile, che colpirebbe i peggiori, ma ogni giorno scopriamo nuovi innocenti. E per rendere la pena di morte accettabile, in ogni lingua vengono usate altre parole: non si dice “uccidere”, ma “eseguire”, “fare giustizia”, “giustiziare”. Anche se l’unica parola nel dizionario è “omicidio”. Per amministrare la pena di morte e renderla potabile, è necessario cambiare il vocabolario. Con l’illusione, inoltre, di considerare la pena di morte un risarcimento del dolore. Avvalorando Albert Camus che nel suo impegno civile per l’abolizione della pena di morte sottolineava l’illusione che l’eliminazione del colpevole fosse la cancellazione del male compiuto. Sostituendo la giustizia con la vendetta che, peraltro, non diventa, alla prova dei fatti, deterrenza dei crimini.
Lo sappiamo bene: la pena di morte non è un deterrente, non calano i crimini, colpisce in maniera sproporzionata le minoranze, sociali, etniche, religiose, gli oppositori politici. È una scorciatoia militare a problemi sociali. È una bugia permanente – sottolinea Mario Marazziti – all’opinione pubblica. «Promette una sicurezza che non dà. È un travestimento della giustizia. È piena di errori. Dà allo stato un potere, di vita e di morte, che è solo di Dio. Distrugge il senso stesso delle leggi, perché le leggi nascono per proteggere la vita e ridurre la violenza, contengono vita. Se danno la morte contraddicono sé stesse e la ragione stessa della legge».
Eppure, in questi decenni molti passi in avanti sono stati fatti. Alla fine degli anni 90 i paesi abolizionisti, di legge o nella pratica, erano 124 oggi sono 145. La richiesta di moratoria universale delle Nazioni Unite nel dicembre 2024 ha avuto 135 voti a favore, 31 contrari,26 astensioni. Nel 2000, quando la Comunità di Sant’Egidio presentò una petizione firmata da oltre 3,2 milioni di persone nel mondo, solo 104 nazioni votarono a favore. Fu proprio l’Italia nel 1994 a promuovere la prima moratoria universale. Di fatto, pena di morte, autoritarismi e guerre si tengono per mano da diversi decenni. Aumentano condanne a morte ed esecuzioni, ma in un numero ristretto di paesi. Cina, Iran, Arabia Saudita, Vietnam, Corea del nord sono stati i paesi con il maggior numero di condanne a morte. Dal 2024 si sono rilevati diversi segnali inquietanti, a partire dagli Stati Uniti. Con la seconda presidenza Trump, pena di morte e retorica della tolleranza zero contro “assassini, stupratori ed altri mostri”, per citare il presidente, si sono intrecciate. Sono aumentate le ammonizioni contro i giudici che considerano incostituzionali le condanne capitali. Nel solo 2025 sono state eseguite 44 esecuzioni in undici stati. Il numero più alto dal 2010. In Iran abbiamo avuto più di 1100 esecuzioni. In Arabia Saudita oltre 300. La Knesset in Israele ha votato una controversa legge che obbliga alla condanna a morte per coloro che compiono un omicidio con intenti razzisti o contro l’integrità del “popolo ebraico”.
Ma torniamo alle vicende incoraggianti, molte delle quali riguardano il continente africano. In Africa, che ha ereditato la pena di morte dai paesi europei, oggi sono 30 i paesi che abolizionisti de jure. Lo Zimbabwe ha abolito la pena capitale l’anno scorso, Kenya, Liberia e Marocco hanno in corso percorsi legislativi che vanno verso la fine della pena capitale. In Gambia si avvicina il divieto costituzionale della pena di morte. In Pakistan non è più prevista per i reati di droga. È un passo significativo. In Vietnam dal 1° luglio di quest’anno i reati puniti con la pena capitale sono scesi da 19 a 10. Piccoli, grandi passi, e la direzione è giusta: una giustizia senza morte.
La fine delle esecuzioni è stata una chiave per guarire le ferite dei genocidi e dei regimi totalitari:
in Europa, in Cile, in Argentina e in altri paesi, è stata abolita quando i regimi autoritari sono stati superati. L’abolizione ha servito a guarire le ferite della guerra, delle guerre civili, e a rafforzare la dignità umana e la democrazia: più recentemente, in Cambogia, dopo la caduta dei Khmer Rossi; nelle Filippine, dopo la fine della dittatura di Marcos; in Burundi (2009) e in Ruanda (2007) dopo due genocidi; in Sudafrica, dove l’ultima esecuzione risale al 1989 e nel 1995 la Corte Suprema, sotto Nelson Mandela, dichiarò la pena di morte incostituzionale. Sappiamo che fu richiesta la pena di morte nel processo che Nelson Mandela subì nel 1962. Ma la condanna fu l’ergastolo. Non avremmo avuto Nelson Mandela e una fine non violenta e pacifica dell’apartheid. Anche in Timor Est, l’abolizione arrivò dopo l’indipendenza dall’Indonesia nel 1999. In Mongolia, dove nel 2017 fu dichiarata una moratoria su iniziativa del presidente Elbegdorj e nel 2017 seguì l’abolizione: un segno di indipendenza dopo l’uso oppressivo e massiccio della pena di morte sotto il comunismo.
Il timore è che le guerre – ha detto Marco Impagliazzo – possono far rientrare il tema della violenza nei rapporti non solo tra i popoli, ma anche tra lo Stato e le persone, come nel caso recente della Repubblica Democratica del Congo.
Il rifiuto della pena di morte trova fondamento sulla tutela della vita. Quale ragion d’essere dell’intero artificio del diritto derivano ulteriori conseguenze sul piano della filosofia giuridica e della filosofia politica. In altri termini, vi è un’implicazione o corollario del rifiuto della pena di morte in quanto negazione di quella intangibilità della vita che forma la ragion d’essere del diritto e delle istituzioni politiche: il nesso tra pena di morte e guerra e tra rifiuto della pena di morte e difesa della pace. Per Luigi Ferrajoli c’è molto di più di un semplice nesso o di una mera somiglianza tra pena di morte e guerra. «Pena di morte e guerra sono esattamente la stessa cosa: la negazione della vita e perciò la rottura del patto sociale di convivenza che alla tutela della vita è finalizzato, l’una nel diritto interno, l’altra nel diritto internazionale; l’una all’interno dello Stato, l’altra nelle relazioni tra Stati». Ricordiamo le parole di Beccaria: «Non è dunque la pena di morte un diritto… ma è una guerra della nazione con un cittadino». La guerra è una pena di morte inflitta ai nemici.
Per Luciano Eusebi l’idea di una società la quale si regge non già su fattori di consenso al rispetto delle regole in essa sancite — sebbene un consenso imperfetto e sempre in fieri — bensì «sullo scaricare violenza verso alcuni dei suoi membri perché non si dia sopraffazione e violenza nei rapporti sociali è del tutto illogica, ma anche controproducente», come ben aveva inteso Cesare Beccaria già nel secondo Settecento con riguardo al caso emblematico della condanna alla pena di morte per affermare il rispetto della vita altrui. Così è anche per la guerra, che ha cercato nei secoli di accreditarsi come giusta in base al medesimo schema della «penalità» retributiva: «è naturale agire per il danno, fino alla sua neutralizzazione, di quell’individuo, di quel popolo o di quello Stato, il cui modo d’agire o la cui stessa esistenza siano valutati negativamente rispetto alla salvaguardia del proprio bene. Un modello, questo, a lungo proposto come connaturato a una pretesa dinamica irrimediabilmente conflittuale delle relazioni umane, la quale ha finito per ravvisare nell’ideale di una pace perpetua il prototipo, addirittura, delle utopie. Salvo addivenire, oggi, alla consapevolezza del fatto che se non si cessa urgentemente dal ricondurre le relazioni umane a tale schema, esso prima o poi ci condurrà — dati gli strumenti della distruzione totale attualmente disponibili — alla catastrofe».
Un mondo senza pena di morte non è meno sicuro di un mondo che ne fa uso con esibizione di certezze o nel silenzio e nell’indifferenza generale. Non è meno sicuro il mondo dove la vita, anche di chi è ritenuto colpevole, viene sempre rispettata come parte integrante del patto sociale, radicato proprio nell’esigenza e nel diritto fondamentale di difendere la vita umana, la vita di tutti gli esseri umani. È tempo, sottolinea Marazziti, «anche a partire dalle crepe della pena capitale, di ripensare a un sistema di sanzioni e di pene che sappia farsi carico della necessità di riconciliazione e riparazione sociale, della rigenerazione della persona umana, della guarigione personale e collettiva di cui tutta la società ha bisogno, soprattutto di fronte a crimini che vogliono minare alla radice il rispetto della vita umana».