Io, Maryam Hussein, attivista della società civile afghana
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Io, Maryam Hussein, attivista della società civile afghana

Maryam Hussein, giovane attivista afghana che, racconta cosa succede nel Paese, come si vive la transizione del governo nelle città

Le donne afghane vivono con il terrore
Le donne afghane vivono con il terrore
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1 Giugno 2011 - 10.59


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traduzione di Serena Fiorletta

Dodici bambini e due donne sono rimasti uccisi sabato 28 maggio in un bombardamento delle forze Nato su due abitazioni della provincia meridionale di Helmand. Cinque soldati italiani feriti lunedì 30 maggio in un attentato talebano suicida, uno di loro, un capitano, in gravi condizioni.
Nel primo caso, i vertici Isaf hanno presentato scuse ufficiali alle autorità afgane, “personali condoglianze alle famiglie e agli amici delle vittime e dei feriti”. Nel secondo caso, il ministro della Difesa, La Russa, l’ha definito “un disperato tentativo di impedire il processo che è in atto”.
Intanto la guerra dell’Afghanistan, molto più complessa delle definizioni sintetiche cui ci ha abituato il nostro ministro, continua a fare vittime tra i civili inermi.

Gli ultimi dati, quelli del Rapporto annuale per la protezione dei civili nel conflitto della missione Onu in Afganistan (9 marzo 2011) dicono che nel 2010 sono stati uccisi 2777 civili, con una crescita del 15 per cento rispetto all’anno prima. Negli ultimi quattro anni, le vittime civili sono 8.832. il più alto costo di vite umane l’hanno pagato bambini e donne dei villaggi rurali, presi tra due fuochi, quelli della coalizione internazionale e quelli dei talebani.

Sul banco degli accusati, in particolare, i raid aerei Nato, le bombe che piovono dal cielo sulle case e sulle scuole.
“Noi afghani vorremmo vedere la fine di questa guerra, ma per questo c’è bisogno di un Piano concreto. Ci siamo confrontati spesso tra noi, afghani che lavoriamo per il miglioramento del nostro Paese, e siamo giunti alla conclusione che la società civile dovrebbe essere presa più in considerazione dalle forze internazionali. Dopo tanti anni, c’è bisogno di un cambiamento e di pianificare una strategia. Ci si dovrebbe focalizzare sullo sviluppo economico, e allora la fine di questa situazione sarebbe possibile. Nessuno purtroppo ci può dare una scadenza, ma noi vorremmo capire cosa si sta facendo, vorremmo che ci venisse spiegato cosa accade nella nostra terra, passo dopo passo”.

Maryam Hussein, giovane attivista afghana, una laurea in Giurisprudenza, è a Roma per partecipare alla Conferenza Internazionale ‘Promuovere il dialogo e la pace in Afghanistan: rafforzare la società civile afgana”. La incontriamo nella sede del Cnel, a Roma, dove si sono svolti i lavori, promossi da Afgana, rete italiana di giornalisti, accademici, organizzazioni sociali con l’Ong italiana Intersos, parte della rete Link 2007.
Da lei, dalla sua voce vogliamo sapere che succede nel Paese, come si vive questa transizione nelle città e nell’immenso orizzonte di cime montuose e di valli punteggiate di villaggi spesso raggiungibili solo a dorso di mulo.

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Quali le speranze, le attese dei giovani impegnati come lei?

La situazione del mio paese è migliorata rispetto a dieci anni fa, all’epoca talebana ma c’è ancora tanto da fare. A livello legislativo e parlamentare sono state approvate leggi che però devono trovare una reale attuazione; recentemente per esempio è passata una legge per l’eliminazione della violenza contro le donne che però di fatto non trova applicazione.

La vecchia generazione, una buona parte della società afghana tradizionale e religiosa, profondamente conservatrice, ha concetti e punti di vista diversi da quelli delle giovani generazioni. Soprattutto per quanto riguarda le donne, i più conservatori pensano addirittura che le donne non debbano proprio uscire di casa. Noi pensiamo che sia importante lavorare nel campo dell’educazione della società civile proprio perché nella società afghana ci sono punti di vista differenti, perché certi costumi tradizionali si perpetuano a causa dell’ignoranza e dell’isolamento.

Questo testimonia quanto sia duro il contesto culturale in cui viviamo.
Ovviamente, la situazione è più difficile nelle zone rurali. Se vedi Kabul e i territori circostanti noti subito la differenza. In città le donne escono, studiano, lavorano, al contrario nelle zone lontane dalle città le donne non possono uscire, non possono studiare, non possono lavorare. Il processo di cambiamento è molto lungo, ma io ci credo, come altre amiche attiviste sono molto paziente e motivata.

E’ per questo che dopo gli studi all’estero sono tornata nel mio Paese.

La guerra certamente continua a pesare su questo lungo processo…?

Siamo molto preoccupati che i talebani possano tornare al governo. Immaginate: per le donne e per i loro diritti sarebbe una catastrofe.
La sicurezza dunque è molto importante perché senza non c’è terreno per il miglioramento, ma deve essere pianificata.

Quali sono le maggiori difficoltà che il movimento delle donne sta affrontando in questo momento?

Le difficoltà economiche. Poi la questione della sicurezza, quella salute. Non dimentichiamo che il tasso della mortalità delle madri alla nascita di un figlio è tra i più alti del mondo. Poi ci sono le bambine, le ragazze che non vengono curate a causa dei pregiudizi e dei tabù del costume tradizionale. Posso dire che tutto è difficile per il movimento delle donne.

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Vi sentite pienamente capite dal femminismo occidentale?

Le persone hanno percezioni diverse dell’Afghansitan e della condizione delle donne. Non ci viene mai chiesto cosa si dovrebbe fare, eppure se la comunità internazionale ci vuole aiutare davvero deve chiederci cosa fare e quali sono i nostri reali problemi, le donne del mondo devono farlo con noi. Insieme s’inquadra il problema e insieme si trovano le soluzioni.

Questa conferenza della società civile afgana indica una buona prassi da condividere?

Penso che iniziative come questa aiutino tutta la popolazione afghana, quindi le donne e i diritti che le riguardano. Abbiamo grandi obiettivi e tentiamo di raggiungerli. Dobbiamo andare avanti su questa strada, la voce diretta del popolo afghano, le ong, le iniziative come questa aiutano più di un ministero per le questioni femminili.

Quale è la tua speranza?

La mia speranza è un futuro luminoso per tutte le etnie presenti nella mia terra, per uomini e donne. Che possano vivere insieme in pace e in armonia.
La paura che l’Afghanistan, una volta concluso il processo di transizione voluto dal presidente Hamid Karzai, possa nuovamente trovarsi nel caos è il timore condiviso dai 21 rappresentanti afghani di sindacati, ong, associazioni culturali e associazioni di donne presenti alla conferenza di Roma, preceduta nello scorso mese di marzo da una conferenza analoga tenuta a Kabul nell’ambito del progetto «Rafforzare la società civile afgana», promosso da Afgana e Intersos con un finanziamento della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.
“Vogliamo esprimere alcune valutazioni e presentare all’Italia e agli altri Paesi europei una serie di motivi di preoccupazione per il futuro del nostro Paese – ha detto Najiba Ayubi dell’Afghan Civil Society Steering Committe, il Comitato afgano che ha organizzato le due conferenze -, siamo convinti che senza la partecipazione critica e attiva delle organizzazioni della società civile non possano essere effettivamente realizzati quei principi di trasparenza, responsabilità, coinvolgimento dei cittadini, rispetto di diritti umani, rispetto dei diritti delle donne, giustizia, sviluppo economico e sociale che sono le premesse indispensabili per una pace autentica. Non vogliamo una democrazia di facciata.”

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Le valutazioni di cui parla Hussein sono contenute nelle otto raccomandazioni che la società civile afghana rivolge alla comunità internzionale ed alle autorità di Kabul, e che compongono la Dichiarazione finale, siglata dalle organizzazioni presenti alla fine dei lavori.

Il primo punto riguarda il sostegno al processo di riconciliazione che deve avvenire “attraverso un percorso trasparente in modo che possa raccogliere la fiducia della popolazione assicurando pace e giustizia sociale”.
Il secondo punto è il ruolo della forza militare internazionale che “deve sviluppare e migliorare la sua strategia per raggiungere precisi obiettivi legati al rafforzamento della sicurezza delle istituzioni entro un lasso di tempo certo”. Inoltre, al terzo punto, l’auspicio che il governo di Kabul ascolti le richieste di “good governance” avanzate dalla società civile, in particolare in relazione alla gestione del denaro pubblico.

Quarto punto, un maggiore rispetto dei diritti umani e della legge da parte della classe politica afghana.

Al quinto punto, si sottolinea la necessità del sostegno delle ong e della società civile internazionale “Vogliamo che le società civili di tutti i paesi che fanno parte della comunità internazionale continuino a sostenere le nostre richieste per influenzare le decisioni del governo afghano e delle stessa comunità internazionale”.

Il sesto punto si riferisce alla conferenza “Bonn II” in merito alla quale né il governo né la comunità internazionale hanno ancora consultato la società civile afghana, che invece chiede di partecipare attivamente e di avere un ruolo di primo piano.

Il settimo punto chiede che vengano riviste le modalità di finanziamento al governo dell’Afghanistan e che questo processo sia condotto interamente dagli afghani. “Crediamo che la società civile afghana debba essere riconosciuta a livello istituzionale da tutti i paesi e che dovrebbe essere coinvolta nell’elaborazione di proposte che riguardano il futuro del paese”.
Infine, “raccomandiamo la creazione di una commissione socio-economica in cui le organizzazioni della società civile siano riconosciute come soggetti politici in grado di avanzare proposte alle istituzioni governative”.
La delegazione afghana è stata ricevuta dal presidente della Repubblica, on. Giorgio Napolitano.

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