di Rachida Bouati
Per le strade della città conservatrice di Zenten, lo sguardo delle donne non s’incrocia mai.
Davanti ai muri dove i graffiti proclamano “Free Libya”, loro svaniscono come fantasmi neri, nascosti sotto il niqab. Nelle case, l’arrivo di un uomo estraneo crea il panico, e le donne fuggono come api.
In questi tempi di guerra, le libiche del Djebel Nefoussa passano la maggior parte del loro tempo chiuse tra quattro mura. Eppure, l’aria della rivoluzione ha toccato anche loro. Già all’inizio dell’insurrezione, molte hanno raggiunto in strada gli uomini per gridare “Abbasso Gheddafi”.
“Sono andata a manifestare in una piazza piena di giovani donne, alcune incinte. Gli uomini erano talmente impressionati che hanno tirato colpi di kalachnikov in nostro onore! Questo gli ha mostrato che siamo uguali, e ha cambiato il loro sguardo su di noi.”, racconta Afaf Abusaa, studentessa in scienze tecnologiche di 20 anni.
Da quando gli uomini sono in guerra, sono le donne che assicurano la retrovia, quella della vita quotidiana e del sostegno morale. “Gli uomini le hanno viste curare le ferite, farsi volontarie e cucinare per i combattenti. Hanno visto madri dire ai figli: vai e combatti, io ti sostengo. Non l’immaginavano proprio…”, conferma Hana Akra, tirocinante in medicina, 24 anni.
Le giovani come lei si sono dunque messe a sperare che la rivoluzione le aiuti ad emanciparsi.
Sperano di poter diventare altro che infermiere, segretarie o insegnanti, i mestieri riservati alle donne perché gli lasciano il tempo di dedicarsi alla famiglia. O di non essere sistematicamente messe da parte per un impiego da un concorrente maschio non più qualificato di loro.
Sperano che i genitori le lascino libere di scegliersi il marito, che padri e fratelli la smettano di dare in casa ordini e divieti.
Sognare di poter essere finalmente attrici della loro vita nella nuova Libia… “Qui la società è molto conservatrice, le donne non hanno veramente la possibilità di scegliere il proprio destino, non smettono mai di dirci: tu non devi, tu non parlare, tu non puoi farlo… Spero che la rivoluzione ci aiuti”, dice Najiah Hamza, studentessa in medicina, 26 anni.
Salma Abu Rawi, 40 anni, racconta come i suoi genitori le abbiano impedito di sposare il giovane di cui era innamorata quando era ragazza, perché lui non era di Zenten. Hana spiega come ha dovuto lottare, e continua a farlo, per studiare medicina e diventare chirurgo, un mestiere riservato gli uomini, “bisogna aprire la strada – dice – è quello che ho fatto io”. Afaf come si è rifiutata di portare il niqab dopo sposata.
“I genitori hanno paura di vedere le figlie uscire di casa, lavorare, hanno paura dei pettegolezzi. Noi vogliamo che tutto questo cambi, che gli uomini cambino. Che si smetta di pensarci consacrate innanzitutto alla casa, alla cucina, ai figli. Chiuse tra quattro mura. Vogliamo poter essere noi stesse.”, afferma Asma Alasouni, studentessa lavoratrice di 22 anni.
Nei villaggi berberi dell’ovest libico, le donne sono invece tradizionalmente più emancipate. A Yefren, non portano il velo per strada. Le si può vedere sole al volante di un’automobile o parlare di contraccezione davanti agli uomini. E in casa, nessuno gli può dire “no”. Si sentono la punta della liberazione delle donne libiche. “Già sotto il regime di Gheddafi, eravamo l’avanguardia femminista”, dice Twzeen Ali Aboud, studentessa di 20 anni. Oggi, vogliamo andare ancora più lontano. Qui sono nate numerose associazioni per i diritti delle donne. Già si parla di cambiare la legislazione sul divorzio e la partecipazione delle donne in politica.
“La rivoluzione ci ha dato la chance di giocare un ruolo nella società”, sintetizza per tutte Anya Ali Aboud, farmacista, 23 anni.