Se un Dottor Stranamore arrivasse alla Casa Bianca
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Se un Dottor Stranamore arrivasse alla Casa Bianca

Per i critici Obama era inesperto del mondo. Ecco, pensate se oggi al suo posto ci fosse Santorum. L'ombra di piccoli eredi di Bush sulla corsa alla presidenza americana.

Se un Dottor Stranamore arrivasse alla Casa Bianca
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14 Marzo 2012 - 08.31


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di Guido Moltedo

Proprio di questi tempi, quattro anni fa, uno squillo ripetuto nella notte. «Sono le tre e i tuoi bambini dormono al sicuro. Ma c’è un telefono alla Casa Bianca che squilla». Il sinistro ring ring continua in un’atmosfera da thrilling. Chi c’è all’altro capo del filo, nello studio ovale? «Qualcosa succede nel mondo. Il tuo voto deciderà chi risponderà a quella chiamata: se è qualcuno che già conosce i leader mondiali, che conosce le forze armate, qualcuno già messo alla prova e pronto a muoversi da leader in un mondo pericoloso». Ed ecco Hillary Clinton, pensosa con gli occhiali, in una stanza oscura che risponde al telefono. Una pubblicità elettorale perfetta. Oggi. Obama potrebbe farla propria e rilanciarla tale e quale.

Ma allora -era il febbraio 2008, con le primarie democratiche che si surriscaldavano- si risolse in un autogol per Hillary, decisa a sferrare un attacco mortale contro il rivale, mettendone in luce la totale mancanza di esperienza nella gestione degli affari internazionali. Non era la politica internazionale al centro dei pensieri degli elettori democratici, che per giunta apprezzavano di Obama la sua posizione netta contro la guerra in Iraq tanto quanto disprezzavano lo zig zag della Clinton sullo stesso tema.

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Adesso è Barack Obama, con Hillary al suo fianco, a sfidare gli avversari repubblicani, scegliendo esattamente lo stesso terreno: la sua competenza di commander in chief, ormai di esperienza consumata, in contrasto con l’improvvisazione dilettantesca e l’avventatezza pericolosa dei contendenti per la nomination del Grand Old Party. Nei giorni scorsi era la crisi iraniana a tenere banco. E su quel terreno il presidente ha avuto buon gioco a mettere alle corde un personaggio come Mitt Romney che -attorniato dagli stessi consiglieri che condussero Bush in due guerre disgraziate e non ancora del tutto concluse- ha definito «irresponsabile» la politica estera della Casa Bianca, perché non sufficientemente impegnata sul fronte della sicurezza di Israele, minacciato dal regime degli ayatollah. Per non parlare di Rick Santorum, con i suoi toni apocalittici su un imminente attacco di Teheran contro lo stato ebraico.

O di Newt Gingrich che si affiderebbe ciecamente alle valutazioni dei dirigenti israeliani. Fossero loro al posto di Obama, l’America avrebbe aperto un altro fronte di guerra nella regione del Golfo. Mentre i temi della politica internazionale e della sicurezza nazionale facevano irruzione nella campagna elettorale americana, ecco riesplodere la questione afghana.

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Anche qui c’è da rallegrarsi che nella situation room della Casa Bianca non ci sia un Santorum che trova disdicevole per l’America scusarsi perché un marine urina sul cadavere di un afghano ucciso o brucia il Corano. O un Romney che critica il piano di ritiro di Obama prima che i talebani siano sconfitti. L’unico che sembra ragionare, almeno sull’Afghanstan, è Gingrich, che ammette: «Penso che con ogni probabilità abbiamo perso -perso tragicamente- le vite di tanti giovani americani e inflitto loro ferite in una missione che scopriremo non essere fattibile».

Ma è lo stesso Gingrich che non esiterebbe a usare la forza in Iran. Per fare che? Spingere l’America in un’avventura pure peggiore di quella afghana e di quella irachena. Difficile che con personaggi così la politica della sicurezza e delle relazioni internazionali possa diventare centrale nello scontro per le presidenziali di novembre. Non sarà interesse dei repubblicani spingersi troppo oltre su quel terreno. Pure lo facessero, Obama avrebbe buon gioco. Per la pochezza dei suoi avversari, ma anche per essere il presidente che ha catturato e ucciso Osama bin Laden e ha provocato la caduta del regime di Gheddafi. Eppure quel che è successo domenica in Afghanistan – i sedici civili uccisi da un militare impazzito – potrebbe rimettere in discussione il ritiro, che finirebbe per somigliare a un’umiliante ritirata.

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Allora sì, Obama avrebbe seri problemi, con gli elettori e con il mondo. D’altra parte l’eccidio di domenica scorsa rischia davvero di mandare in fumo un delicatissimo lavoro diplomatico teso a negoziare con la parte meno intransigente dello schieramento talebano, adesso messo alle corde dai falchi. «Ci vogliono mesi e mesi per costruire la fiducia delle popolazioni locali, e poi qualcosa come questo accade e tutto va via, letteralmente nel giro di una notte». Questa riflessione di Seth Jones, analista della Rand, figura sul sito del New York Times come la “citazione del giorno”.

Sì, il rischio è che quel che doveva essere l’inizio di un conto alla rovescia liberatorio dall’incubo afghano si trasformi nell’ingresso in una nuova e lunga fase conflittuale, questa sì in grado di condizionare tutti gli sforzi dell’amministrazione tesi a ridurre le crisi internazionali – in primis quella afghana – in cui è coinvolta l’America, per concentrare il grosso delle risorse su quella domestica. E a garantirsi, anche così, un nuovo ciclo presidenziale.

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