Il caso Assange lacera le femministe
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Il caso Assange lacera le femministe

Londra respinge il ricorso di Assange e ora il fondatore di Wikileaks rischia di essere trasferito in Svezia e da lì, negli Usa. Dibattito fra le femministe svedesi.

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17 Giugno 2012 - 19.43


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Due notizie. La prima è di questi giorni: la Corte suprema inglese ha respinto il ricorso di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks – il sito, di più: l’organizzazione – che ha diffuso decine di migliaia di documenti segreti della diplomazia internazionale. Ora Assange ha due sole settimane per provare l’ultima strada che gli rimane: il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Dopodiché, dovrà essere estradato in Svezia, dove è accusato di un reato che genericamente in Italia viene indicato come “violenza sessuale”. Anche se si tratta di un reato particolare, che esiste quasi solo in Svezia: l’accusa – mossagli da due ragazze che avevano avuto con lui rapporti consenzienti – riguarda il fatto che Assange non sia andato a farsi le analisi per sapere se sia portatore di malattie veneree. Così come gli avevano chiesto le due ragazze. E in Svezia questo rifiuto è un reato.

I problemi per Assange, comunque, non finiscono qui. Perché se sarà estradato e condannato in Svezia, da lì potrebbe poi essere trasferito negli Usa. Dove, nei suoi riguardi le accuse riguardano la violazione di segreti di Stato e spionaggio. Accuse che potrebbero addirittura prevedere la pena di morte.
Questa la notizia. Che si poteva leggere su molti siti.
Ma assieme a questa ce n’è un’altra. Di cui in Italia non s’è parlato affatto. E riguarda il dibattito – dibattito vero, colto, difficile paragonarlo a quello che sembra appassionare le pagine web italiane – aperto fra le fila delle femministe svedesi. Che si interrogano se la vicenda Assange, le accuse contro di lui, le “sentenze” già scritte dalla stampa svedese, siano la spia di un imbarbarimento della società scandinava. Che in qualche modo coinvolge anche le donne.

E ad aprire questa discussione è stata la donna, l’intellettuale considerata la madre del femminismo svedese: Helene Bergman. Fu lei che alla fine degli anni ’60 portò le universitarie, le ragazze, le giovani di allora a battersi – e ad imporre – una cultura, una filosofia, uno stile di vita paritario. Fu lei ad aggregare attorno alla sua radio, “Radio Ellen”, la battaglia delle donne. Ora però sul suo sito è costretta a fare amare osservazioni: “Quelle di noi che si sono battute per il femminismo in Svezia negli anni ’70 hanno lottato per la libertà sessuale e per il diritto ad assumersi la responsabilità delle nostre vite”. Lei e le altre, insomma, non hanno lottato “contro gli uomini” ma hanno lottato anche “per essere in grado di fare ciò che fanno gli uomini da sempre: godere il sesso”. Goderlo da protagoniste. Che è il contrario di chi si atteggia sempre a “vittima” o di chi pretende di essere “classificata dallo Stato come vittima, di default”. Vittima predefinita, indipendentemente dall’accertamento dei fatti.

Helene Bergman, insomma, si stupisce del fatto che le due ragazze svedesi – una molto conosciuta come militante femminista – abbiano raccontato di essersi portate a letto Assange, di aver fatto sesso con lui. Magari, di aver scoperto che era “arrapato” come tanti altri uomini. Magari di aver scoperto che era un uomo esattamente come tanti altri, addirittura banale. E poi di essere “andate dalla polizia”.

E tanto è bastato perché i giornali e i media svedesi, ancor prima di qualsiasi sentenza, abbiano condannato, senza appello, il fondatore di Wikileaks. Esattamente come hanno fatto tutte le forze politiche e sociali. Omologate nella difesa di un “politicamente corretto”, che ora, invece, inorridisce Helene Bergman. Perché da “strumento di liberazione” il facile femminismo di Stato è diventato uno strumento di potere. Di più: “E’ diventato uno strumento per far carriera, soprattutto in politica, nel servizio civile e nel sistema giudiziario”. O nei media: perché oggi a Stoccolma giornali e tv si dedicano all’obiettivo dichiarato di “educare la popolazione piuttosto che tenere il potere sotto controllo”. Quel “potere” che ha tremato davanti alle rivelazioni di Wikileaks. E che ora sembra volersi vendicare. Col silenzio, quando addirittura col consenso, del movimento femminista.
Fin qui Helene Bergman. E, come si dice in questi casi, ora il dibattito è aperto.

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