Daphne Caruana Galizia come Anna Politkovskaja: il denaro, il potere e il petrolio

L'ultima frase che Daphne ha scritto nel suo blog è questa: «There are crooks everywhere you look now. The situation is desperate». I criminali sono ovunque si guardi. È una disperazione.

Daphne Caruana Galizia come Anna Politkovskaja
Daphne Caruana Galizia come Anna Politkovskaja
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19 Ottobre 2017 - 15.34


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È il 7 ottobre 2006 a Mosca e Anna sta rientrando a casa. Viene freddata nell’ascensore del suo palazzo, contro di lei esplodono subito quattro colpi di pistola.

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Il quinto colpo del killer è per la sua nuca, deve essere sicuro che muoia.

L’ultimo articolo di Anna per Novaja Gazeta verrà pubblicato postumo ma incompleto, corredato da un video di torture che faceva parte del materiale a cui stava lavorando. Anna stava scrivendo delle violenze che le forze cecene infliggevano a chiunque fosse ritenuto un sospettato, civile o meno.  

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È il 16 ottobre 2017 a Malta e Daphne è nella sua Peugeot 308.

È appena uscita di casa.

La sua auto salta in aria con una bomba: è la maniera che usano i contrabbandieri di carburante nella loro guerra privata, Daphne lo sapeva bene, lo aveva scritto meno di un anno prima, il 31 ottobre 2016 nel post Diesel-smuggling, drug-trafficking, car bombs and shootings.

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Un legame tutt’altro che invisibile lega queste due donne: Anna Politkovskaja e Daphne Caruana Galizia erano due giornaliste.

Non abbellivano la realtà, descrivevano ciò di cui erano testimoni.

Anna Politkovskaja insisteva molto su questo: l’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.

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Daphne Caruana Galizia era un esempio della medesima deontologia professionale, della stessa etica: lo dimostra il suo blog.

Daphne discuteva con i lettori che lasciavano commenti sotto i suoi post, il suo spazio si chiama Running Commentary che in italiano si può tradurre con Cronaca in diretta ma si è tentati, per quel running che contiene molto, di tradurre il titolo diversamente.

Il suo assassinio voleva fermare la cronaca di una che insegue i fatti, che corre e non si ferma: le gambe intellettuali di un giornalista si possono fermare solo sparando o facendo saltare in aria la sua auto o usando il mezzo per schiacciare il suo corpo.

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Anna è morta per avere scritto della guerra in Cecenia, Daphne per l’inchiesta Panama Papers, ma non si può escludere che sia morta anche per il suo lavoro sulla rete del contrabbando di gasolio sull’asse Libia – Malta – Italia.

Di questi traffici, anche più oscuri delle aziende aperte a Panama dai politici maltesi all’indomani della loro elezione, Daphne aveva scritto a partire dal 2013.

Proprio ieri, 18 ottobre 2017, un’operazione della Procura di Catania e della Guardia di Finanza si è conclusa con 9 nove arresti: nel Mediterraneo i pescherecci trafficano uomini, donne, bambini e petrolio.

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Daphne seguiva una pista che attraversava l’Europa e che ci riguarda molto da vicino, del resto come dimenticare il filone d’indagine nell’ambito di Mafia Capitale che vide l’arresto di Andrea D’Aloja e di Massimo er romanista Perazza nel luglio 2015 per la truffa delle false forniture di gasolio importato da Malta tramite mezzi libici ai danni della Marina.

Perché ho messo in relazione l’assassinio di Anna e quello di Daphne?

È una questione di date: entrambe sono state uccise in ottobre e nell’arco degli undici anni che separano le loro esecuzioni la parabola democratica e giornalistica continua a precipitare: da un lato siamo spettatori passivi di giochi di potere in cui non sappiamo e non possiamo intervenire. Siamo impotenti.

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Dall’altro, il giornalismo d’inchiesta si riduce sempre più ad un atto di eroismo individuale, quando invece dovrebbe essere collettivamente incoraggiato.

È una questione geopolitica: da europei e persone che appartengono al mondo, siamo tutti coinvolti. Le inchieste di Daphne erano le nostre inchieste, così come quelle di Anna.

L’ultima frase che Daphne ha scritto nel suo blog è questa: «There are crooks everywhere you look now. The situation is desperate».

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I criminali sono ovunque si guardi. È una disperazione.

Difficile e inutilmente retorico cercare di aggiungere altro: questo sta diventando l’epitaffio del nostro tempo.

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