Dopo le genuflessioni italiani, il “fuoco amico” francese, non ci resta che Joe Biden. Il presidente eletto Usa ha promesso di rimettere il rispetto della democrazia al centro della politica estera americana, dopo anni in cui Donald Trump non ha nascosto la sua ammirazione per gli “uomini forti» di mezzo mondo”.
Joe, pensaci tu…
Dalle colonne del New York Times Michael Wahid Hanna, della Century Foundation, gli manda a dire che, se vuole tradurre le parole in fatti, il futuro inquilino della Casa Bianca avrebbe un posto perfetto da dove iniziare: l’Egitto del generale-carceriere Abdel Fattah al Sisi sempre più brutale e sfrontato nel calpestare i diritti umani e nel reprimere ogni voce critica (tipo quella di Patrick Zaki).
Quest’ultimo, concede Hanna, potrebbe avere buoni motivi per credere che Biden non gli si metterà mai di traverso: chi governa al Cairo “resta convinto della centralità del Paese per la politica americana in Medio Oriente. Più di tutto, l’Egitto si aspetta che i timori di Washington di potenziale instabilità e la stretta relazione del Cairo con partner americani come l’Arabia Saudita, gli Emirati e Israele rendano improbabili un cambio della politica statunitense”. Biden, però, avrebbe altrettanti buoni motivi per vedere la faccenda in modo diverso. La situazione non è più quella del 1979, quando il trattato di pace fra Egitto e Israele, in piena guerra fredda, faceva del primo il perno arabo insostituibile della politica Usa in Medio Oriente. I rapporti israelo-egiziani si sono ormai consolidati per conto loro e la lotta di Al Sisi al terrorismo continuerebbe in ogni caso, per motivi di sicurezza interna.
«Passare alla linea dura con l’Egitto non sarebbe, in realtà, troppo costoso per la sicurezza o la strategia americana in Medio Oriente» scrive Hanna. Che, a dire il vero, forse sottovaluta il ruolo dell’Egitto come contrappeso regionale alla Turchia di un Erdogan che, pur membro della Nato, ha comprato sistemi missilistici dalla Russia e ha un rapporto sempre più stretto, anche se non privo di contrasti e ambiguità, con Vladimir Putin (che è poi il motivo per cui al Sisi è appena stato ricevuto con tutti gli onori in Francia da Macron). In ogni caso, per Hanna, Biden dovrebbe bloccare la tranche da 300 milioni di dollari in aiuti militari 2020 che deve ancora essere erogata da Washington al Cairo (e che sarebbe formalmente legata al rispetto dei diritti umani, clausola finora sempre bypassata per ragioni di sicurezza nazionale).
Hanna conclude scrivendo che un radicale cambiamento di rapporti con un alleato di lungo corso sarebbe, per la politica estera americana, un inedito. Ma, proprio per questo, “manderebbe un potente segnale non solo al Medio Oriente ma a tutto il mondo”.
Tappeti rossi all’Eliseo
Dalla speranza Biden alla “certezza” Macron. In negativo, Scrive Roberto Montefiori, corrispondente del Corriere della Sera a Parigi: “Una serata di gala, una cerimonia solenne all’Arco di Trionfo, le gigantesche bandiere nazionali al vento nell’esplanade des Invalides, un ricevimento al municipio di Parigi con la sindaca Anne Hidalgo, il conferimento all’Eliseo della Gran Croce della Legion d’Onore. Non male, per un dittatore accolto nella patria dei diritti dell’uomo. Della visita di Stato del presidente egiziano Al Sisi, lunedì a Parigi, era rimasta finora solo una conferenza stampa congiunta molto cordiale, nonostante i disaccordi rapidamente espressi dal presidente francese Emmanuel Macron sul rispetto dei diritti umani nel più popoloso Paese arabo. Niente che comunque potesse mettere in discussione la cooperazione militare tra Francia e Egitto, alleato sempre più indispensabile nel Mediterraneo. Anzi, proprio mentre al Cairo il tribunale decideva di tenere Patrick Zaki per altri 45 giorni in carcere, e la soluzione del caso Regeni sembrava sempre più lontana, a Parigi Macron spiegava con serenità che non avrebbe condizionato gli aiuti militari al rispetto dei diritti umani: ‘Meglio mantenere una linea di dialogo esigente piuttosto che praticare un boicottaggio’. Realpolitik rivendicata, quindi. Basta intendersi sulla nozione di ‘dialogo esigente’. Perché a differenza dei media francesi, la televisione di Stato egiziana ha trasmesso le immagini complete della visita del presidente al Sisi a Parigi, senza limitarsi alla conferenza stampa. Gli spettatori egiziani hanno così avuto modo di assistere al resoconto dei tanti eventi collaterali della visita, passati sotto silenzio in Francia e neppure menzionati nell’agenda del presidente Macron. Cerimonie e omaggi poco pubblicizzati a Parigi, ma fondamentali per il presidente all Sisi, impegnato a costruirsi in patria un profilo di leader rispettato in Europa nonostante i circa 60 mila prigionieri per reati di opinioni detenuti nelle sue carceri…”.
Pecunia non olet
Per Amnesty International, “ricevere il presidente al-Sisi in visita ufficiale senza sollevare adeguatamente queste preoccupazioni, mentre tanti attivisti e difensori dei diritti rimangono detenuti esclusivamente per il loro lavoro sui diritti fondamentali, spesso sulla base di accuse palesemente false di terrorismo, saboterebbe gli sforzi dichiarati della Francia a favore dei diritti umani e minerebbe la sua credibilità in molti Paesi della regione”.
Per Parigi, l’Egitto è un partner centrale nei difficili equilibri nella regione. Tra il 2013 e il 2017, secondo Amnesty, la Francia è diventata il principale fornitore di armi del Paese: “Solo nel 2017 ha venduto più di 1,4 miliardi di euro di attrezzature militari e di sicurezza”, tra cui anche tecnologie di sorveglianza usate contro gli oppositori. Amnesty ricorda le “informazioni credibili sull’uso delle armi francesi nella repressione violenta delle manifestazioni” e “delle operazioni di antiterrorismo nel Sinai, tra cui esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e arresti arbitrari”.
Annota Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia:” Un rapporto di Amnesty International mette in evidenza il ruolo della Francia, sostenendo che veicoli blindati forniti da Parigi sono stati usati con esiti mortali dalle forze di sicurezza egiziane per disperdere ripetutamente e violentemente le proteste e stroncare il dissenso. Tra il 2012 e il 2016 la Francia ha fornito all’Egitto più armi di quante gliene aveva inviate nei 20 anni precedenti. Nel 2017 ha trasferito al paese nordafricano forniture militari e di sicurezza per un valore di oltre un miliardo e 400.000 euro. Il 14 agosto 2013 blindati Sherpa forniti dalla Francia vennero usati dalle forze di sicurezza egiziane per i sopra citati massacri delle piazze cairote..”.
Il rapporto, intitolato “Egitto: come le armi francesi sono state usate per stroncare il dissenso”, si basa su oltre 20 ore di immagini open source, centinaia di fotografie e 450 gigabyte di ulteriore materiale audiovisivo fornito da organi d’informazione e gruppi per i diritti umani egiziani. La chiara conclusione è che veicoli Sherpa e Mids sono stati usati durante alcuni dei peggiori episodi di repressione interna da parte delle forze di sicurezza egiziane.
“Che la Francia abbia continuato a inviare all’Egitto forniture militari dopo che erano state usate in uno dei peggiori attacchi contro i manifestanti del XXI secolo, è un fatto agghiacciante”, ha dichiarato Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord di Amnesty International.
“Il fatto che questi trasferimenti siano stati effettuati e ancora proseguano sebbene le autorità egiziane non abbiano intrapreso alcuna azione per accertare le responsabilità e per porre fine al loro sistema di violazioni dei diritti umani, rischia di rendere la Francia complice nell’attuale crisi dei diritti umani in Egitto”, ha continuato Bounaim.
“Abbiamo fatto presente più volte alle autorità di Parigi l’abuso fatto delle forniture militari e abbiamo ripetutamente chiesto di chiarire completamente l’ammontare e la natura di questi trasferimenti, così come chi fosse l’utilizzatore finale. Finora il governo francese non ha dato risposte adeguate”, ha rimarcato Bounaim.
Pizzini minacciosi
Quali siano i metodi usati dal regime egiziano per intimidire chi non si piega allo stato di polizia, lo racconta molto bene su Ilfattoquotidiano.it Pierfrancesco Curzi: “il sistema di intelligence egiziano sceglie la via più diretta per mettere in guardia un oppositore, dandogli un avvertimento agghiacciante a mezzo stampa. Si tratta di Hossam Bahgat, fondatore nel 2002 dell’Eipr, la ong con cui fino al 2019 ha collaborato anche Patrick Zaki. ‘Hossam Bahgat – si legge nell’editoriale scritto da Khaled Imam sull’edizione di al-Massaa – è abituato a riempire i social con un mare di bugie. Se, all’improvviso uno come lui dovesse scomparire, i suoi seguaci denuncerebbero ai quattro venti le responsabilità dello Stato, tra arresto e sparizione forzata. In realtà significa che lo stesso Bahgat si è unito ad un gruppo terroristico internazionale all’estero. Di storie come queste ce ne sono state tante in passato, tutti a preoccuparsi quando invece molti erano morti dopo aver fatto parte di organizzazioni criminali’. L’articolo in versione online, pubblicato ieri dal quotidiano serale al-Massaa (di proprietà della Tahrir editore che gestisce altri media vicini al governo in carica) riportava dichiarazioni molto pesanti e dirette. – rimarca ancora Curzi – E non stiamo parlando di un giornale qualsiasi: ‘Si tratta di una testata che ha legami accertati con la Nsa (la Sicurezza Nazionale, il temuto servizio di intelligence egiziano, ndr) e Imam afferma di non stupirsi se io dovessi scomparire prima o poi – racconta Bahgat a Ilfattoquotidiano.it– Cos’è questa esattamente se non una minaccia diretta alla mia persona?”.
Una minaccia da prendere molto, molto sul serio, visto che viene da un regime, anche mediatico, che ha fatto scomparire più oppositori (oltre 34mila, i “desaprecidos” egiziani) di quanto riuscì a fare la giunta militare Argentina del generale fascista Videla.
Che dire: non ci resta che sperare in Biden.