Afghanistan, i talebani alla conquista di Kandahar. Il regno della sharia e la fuga dell'Occidente

Violenti combattimenti sono in corso per il quarto giorno consecutivo a Herat tra i talebani e le forze governative

Forze speciali afghane a Herat
Forze speciali afghane a Herat
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Agosto 2021 - 18.48


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La fuga e l’avanzata. La fuga dell’Occidente, l’avanzata dei talebani. Violenti combattimenti sono in corso per il quarto giorno consecutivo a Herat tra i talebani e le forze governative. Terza città afghana per importanza – con i suoi 600.000 abitanti – Herat è semi assediata dai talebani. A difesa Kabul ha schierato sul campo “centinaia di soldati delle forze speciali”.

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Lo ha annunciato il portavoce del Ministero della difesa, Fawad Aman, citato dai media locali. La Bbc riferisce di intensi combattimenti che proseguono anche nel centro di Lashkar Gah e a Kandahar. I talebani da tre mesi guidano un’offensiva a tutto campo, nelle ultime settimane si sono avvicinati molto a Kandahar, culla del loro movimento, raggiungendo i confini della seconda città del paese per popolazione (650.000 abitanti).  La sua caduta ne farebbe di nuovo l’epicentro del loro regime di stampo ultra conservatore e fondamentalista della legge islamica, come quando governarono l’Afghanistan tra 1996 e il 2001 e il paese ne uscì distrutto. Nella notte tdi ieri re razzi hanno colpito l’aeroporto. “Due dei razzi hanno danneggiato la pista e per questo motivo tutti i voli da e per l’aeroporto sono stati cancellati”, ha detto il capo dello scalo, Massoud Pashtun, confermato da un responsabile dell’aviazione civile a Kabul.

Le forze di sicurezza afghane citate dai media di Kabul, riferiscono che i talebani “avanzano verso il centro”, “barricandosi nelle case e nei giardini della popolazione”. E ora starebbero minacciando diversi capoluoghi di regione: oltre a Kandahar ed Herat, anche Lashkar Gah, capoluogo della provincia di Helmand (sud), confinante con quella di Kandahar.  Dei 17 distretti dell’omonima provincia nell’ovest del paese, solo due sono rimasti sotto il controllo del governo, quello di Guzara e quello appunto della città di Herat. Ieri è stato attaccato il compound provinciale dell’Onu, il bilancio è di un poliziotto afghano ucciso e due ufficiali feriti. Le forze afghane che resistono a stento all’offensiva nemica, controllano essenzialmente solo i principali assi maggiori e i capoluoghi di provincia. Il repentino deterioramento della situazione della sicurezza in Afghanistan è dovuto “alla decisione improvvisa” degli Usa di ritirarsi dal paese. Lo ha detto il presidente afghano Ashraf Ghani durante un discorso al parlamento, sullo sfondo dell’offensiva a tutto campo dei talebani.

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 La commissione afghana per i diritti umani rende noto che nei primi sei mesi di quest’anno i civili uccisi sono stati 1.677, con una drammatica impennata dell’80% rispetto al 2020.  

La trincea del Jihad

Gli Stati Uniti, dopo gli attentati dell’11 settembre lanciarono nell’ottobre del 2001 l’offensiva contro l’ Afghanistan dei talebani, diventato un safe haven, un rifugio sicuro per i terroristi di al Qaeda.

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Vent’ani dopo, in Afghanistan operano una costellazione di gruppi jihadisti, come il Network Haqqani, manovrato dai Servizi pachistani, e lo Stato islamico, che ha cellule nella capitale e controlla una piccola fetta di territorio al confine con il Pakistan.  L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i Talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-vendita-incasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afghana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani. 

Il fallimento dell’Occidente

Nel gennaio 2017, l’Isis ha annunciato la nascita di una nuova fazione locale in Afghanistan, alla quale hanno velocemente aderito molti fuoriusciti dai talebani: gli afghani di Nangarhar non lo sapevano, ma si trattava proprio dei pakistani rifugiati nelle loro case. Dopo un anno di alleanza con i talebani afghani, in estate, l’Isis è venuto allo scoperto predicando in moschea un islam rigidamente wahabita (lo stesso professato in Arabia Saudita).  A luglio 2017 sono cominciati i primi scontri a fuoco tra i talebani afghani e i pakistani, passati all’Isis.   Dopo un mese circa di combattimenti, l’Isis si è impossessato della zona, nonostante gli americani bombardassero sia loro che i talebani. Passando villaggio per villaggio e casa per casa, i jihadisti hanno rubato i mezzi di sostentamento ai residenti, distruggendo scuole e madrasse talebane, imponendo una nuova legge. Le abitazioni dei talebani sono state bruciate e chi veniva sospettato di essere loro alleato è stato rapito e seviziato. 

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 Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al Califfo al-Baghdadi, anche lui passato a miglior vita. Nella stessa, il Mullah intimava il fu Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. E a rendere ancora più ingovernabile il Paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtun, si aggiungono Tajiki, HazaraUzbechi, AimakTurkmeni e Baluchi.

Dopo venti anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Venti anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l’Italia. Afghanistan, 2001-2021: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli.

 Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i Pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato.

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La madre di tutte le sciagure

Afghanistan, venti anni di guerra raccontano di un immane fallimento dietro al quale si cela una amara verità: la forza non può surrogare la politica, facendo dello strumento militare un fine. L’ultimo Rapporto, relativo al 2016, della Missione di assistenza Onu in Afghanistan parla chiaro: il numero di vittime civili, circa 3.500 morti e 8.000 feriti, è il più alto dall’inizio del conflitto. Dati che sono registrati dal 2009 ma che in realtà si riferiscono ad una guerra iniziata ormai 16 anni fa. Ad essere principale bersaglio sono i bambini, con un 24% in più di piccoli uccisi e mutilati nel Paese rispetto allo scorso anno. Sono le mine e gli esplosivi a ferire i più piccoli mentre vanno a scuola, giocano nel cortile o vanno a prendere l’acqua al fiume. Armi vigliacche di un conflitto che fa sentire la sua eco anche a distanza di 40 anni, ovvero la durata di una mina inesplosa. Dal 2014, con il ritiro delle truppe internazionali, la situazione è peggiorata: non sono state costruite strade né infrastrutture. Il sistema sanitario e la scuola non hanno più risorse. Annota Marco Leofrigio, in un articolato saggio su “AD” (AnalisiDifesa): “I talebani, come denunciato anche dal Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), sono giunti a controllare un territorio esteso come non mai in precedenza dopo il 2001 quando l’Operazione anglo-americana Enduring Freedom fece cadere il loro regime. Dalla seconda metà del 2016 altro terreno è stato perso, con il governo afgano che arrivava a solo il 57% del Paese, ma questa percentuale di controllo si è ridotta ulteriormente con la recentissima caduta del distretto di Sangin, nell’Helmand, una perdita simbolica per tutta la coalizione anti-talebani.”. Altro che in rotta. “Fin quando ci sarà un solo soldato americano nel nostro Paese, l’Afghanistan sarà il cimitero di questa superpotenza nel 21° secolo” e i combattenti islamisti “continueranno con determinazione e solennità la jihad”, proclama il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid.  I soldati della Coalizione caduti, dall’inizio della guerra, sono 3529, di questi 2393 americani, e 54 italiani, e oltre 170mila militari e civili locali. Il calcolo delle vittime afghane è più controverso. Almeno 35 mila militari, dai 20 ai 30 mila civili, secondo le stime dell’Onu e del Watson Institute della Brown University. 

Vent’anni dopo, l’Afghanistan è sempre più un “Paese dei Talebani”. Secondo un recente rapporto dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, i Talebani controllano o contestano il 40% dei distretti afghani. In particolare, i talebani hanno una significativa influenza su una fascia di territorio che dalla provincia di Farah attraversa le provincie di Helmand, Kandahar, Uruzgan, Zabul, fino alla provincia di Ghazni. In quest’ultima, ai primi di giugno del 2017 i talebani hanno occupato il distretto centrale di Waghaz facendo sfilare i propri uomini in parata – in pieno giorno e senza che né la coalizione né i governativi intervenissero – e pubblicando il relativo video sul Web. I Talebani hanno adesso il controllo completo di 5 distretti su 18 della provincia di Ghazni e del 60% di altri 9 distretti. Peraltro, Ghazni è anche una roccaforte di Al Qaeda, Stato Islamico, Islamic Movement of Uzbekistan e dei pachistani di Lashkar-e-Taiba. Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato. Nessuno vuole vedere in faccia una sconfitta sempre più evidente. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”.  Un cimitero sempre più affollato. 

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Scrive Raffaele Crocco su atlanteguerre.it: “Nella colonna delle uscite ci sono 150mila morti da mettere in contabilità. Ci sono 2mila miliardi di dollari spesi dai contribuenti degli Stati Uniti e 8,5 miliardi di euro spesi da quelli italiani. Da mettere a bilancio anche la morte di 4mila soldati della coalizione – la maggioranza degli Usa-, 52 di questi italiani. Sul fronte delle entrate, non c’è nulla, niente, zero

È un vero fallimento la guerra in Afghanistan e il ritiro delle truppe Usa e Nato ne è solo la certificazione. Una guerra insensata – nella insensatezza assoluta di tutte le guerre – e dannosa, durata inutilmente vent’anni, che ci lascia solo una domanda: ma almeno è servita a qualcosa? La risposta è secca: no. Proviamo a capire perché, mescolando in ordine sparso ragioni ideali, cinica politica internazionale, mondo degli affari. La guerra doveva portare in Afghanistan democrazia e giustizia, sconfiggendo contemporaneamente al-Qaeda e Talebani. Vent’anni dopo, l’organizzazione terroristica è ancora viva e agisce. L’unica vittoria militare sembra essere la vendetta che gli Usa hanno compiuto scovando e uccidendo Osama bin Laden, responsabile della strage delle Torri Gemelle. I Talebani, invece, nel 2001, all’inizio della guerra, controllavano realmente il 30% del territorio, ora controllano le campagne. In più, torneranno a governare con il consenso internazionale, dato che stanno combattendo l’Isis assieme alle Forze di sicurezza Usa. La democrazia è rimasta altrove, in Afghanistan non è certo arrivata. La classe dirigente scelta da Usa e alleati si è mostrata sufficientemente corrotta. Se la democrazia, poi, si realizza migliorando la distribuzione della ricchezza e rilanciando l’economia la missione è fallita: in 20 anni, abbiamo investito solo 29miliardi di dollari nello sviluppo del Paese, che resta tra i più poveri del Mondo. La condizione della donna è rimasta quella che era, cioè disastrosa. Inoltre, è molto probabile che riprenda con più vigore la persecuzione su base religiosa della minoranza hazara, sciita.

Per quanto riguarda il posizionamento geostrategico, meglio lasciar perdere. L’Afghanistan doveva servire agli Usa come base operativa nell’Asia centrale, per controllare Cina, Russia, Iran e traffico di petrolio. Obiettivo completamente fallito. nemmeno una porzione di territorio rimarrà sotto controllo, nonostante la guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti nella loro storia. Qualcuno di contento c’è: sono i colossi statunitensi degli armamenti. Lockheed Marti, Northrop Grumman e Boeing sono le tre più grandi industrie di armi del Mondo. Buona parte dei 2mila miliardi di dollari investiti da Washington nella guerra se li sono mangiati loro. Una forma di ‘Warfare’ che gli Stati Uniti hanno usato spesso per rilanciare la loro economia quando in crisi.

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