Il Sultano Erdogan, lo Zar Putin il Gigante cinese: la triade che conta nel "nuovo" Afghanistan

In geopolitica una cosa è certa: il vuoto lasciato da una potenza, globale o regionale, viene subito riempito da altri attori con ambizioni neo imperiali. Vale per la Turchia, la Russia e la Cina d

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Agosto 2021 - 17.52


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Il “Sultano”, lo “Zar, ” il “Gigante” cinese. In geopolitica una cosa è certa: il vuoto lasciato da una potenza, globale o regionale, viene subito riempito da altri attori con ambizioni neo imperiali. Vale per la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, la Russia di Vladimir Putin, la Cina di  Xi Jinping

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 Le mire neo ottomane

I Talebani e il governo turco si sono incontrati nella capitale Kabul per “circa tre ore e mezza”. Ankara sta inoltre valutando la proposta dei miliziani di gestire la sicurezza dello scalo della capitale dell’Afghanistan e intende andare avanti nei negoziati. A riferirlo oggi è lo stesso Erdogan, rispondendo alle domande dei cronisti locali prima di imbarcarsi per la Bosnia-Erzegovina, dove si sta recando in vista ufficiale. 

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 “L’incontro si è tenuto presso l’ambasciata per tre ore e mezza”, ha detto il capo di Stato, sollecitato sulla riunione dei funzionari turchi con i talebani. L’incontro si è svolto ieri all’ambasciata turca di Kabul. 

“Se necessario, avremo l’opportunità di tenere nuovamente tali incontri. Con questi negoziati stiamo cercando di portare avanti un processo in modo sano“, ha poi ribadito il presidente turco come si legge sul quotidiano Hurryet. 

I giornalisti hanno anche chiesto al presidente un commento sulla richiesta dei miliziani di gestire la sicurezza dell’aeroporto della capitale dopo il 31 agosto, data fissata per il termine delle operazioni di evacuazione dal Paese. La proposta era stata fatta trapelare nei giorni scorsi da funzionari di Ankara. Erdogan ha detto che il governo turco “non ha ancora preso una decisione riguardo a questo”. 

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La Turchia si candida quindi a gestire una situazione molto complessa anche se indubbiamente può contare su dei vantaggi che tutti gli altri Paesi NATO non hanno: consolidati rapporti con l’Afghanistan risalenti sin dall’ultima fase dell’Impero ottomano I e la possibilità di avere una relazione privilegiata con i Talebani grazie al fatto che la Turchia è un Paese a stragrande maggioranza musulmana, elemento che Erdogan ama costantemente sottolineare.

Il “Sultano” cerca di condizionare la leadership talebana, affinché nel nuovo governo vi siano figure vicine alla sua persona come Gulbuddin Hekmatyar, ex primo ministro afghano che si era mostrato favorevole a un governo provvisorio inclusivo. I legami di Erdogan an con Hekmatyar risalgono agli anni Ottanta, quando quest’ultimo era un leader mujaheddin che combatteva contro l’occupazione sovietica. Ed è circolata molto sui social in questi giorni una foto che mostra un giovane Erdoğan seduto accanto a Hekmatyar. Un altro leader vicino al presidente turco è Salahuddin Rabbani, capo del partito Jamaat-e Islami, già ministro degli Esteri dell’Afghanistan e ambasciatore in Turchia, uno dei mediatori designati per la ripresa dei colloqui di pace che si sarebbero dovuti tenere a Istanbul.

L’asse Mosca-Pechino

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La Russia è disposta a coordinarsi con la Cina per una “transizione graduale della situazione in Afghanistan, per combattere il terrorismo, per porre fine al traffico di droga e prevenire la propagazione dei rischi alla sicurezza”. “E’ importante tenere una comunicazione tempestiva sulle principali questioni bilaterali e multilaterali. La situazione è complessa”, ha detto Vladimir Putin in un colloquio telefonico col presidente cinese Xi Jinping.

“ Mosca – annota Marta Allevato, in un documentato report per Agi – appare pronta a impegnarsi in un dialogo coi talebani, se questi saranno in grado di garantire sicurezza ai suoi diplomatici e di evitare attacchi agli alleati in Asia centrale, prima di tutto Tashkent e Dushanbe. Il fianco meridionale della Federazione, l’Asia centrale, è da tempo focolaio di fragilità geostrategica e il Cremlino vorrebbe mantenere la regione come una “zona cuscinetto”. L’ipotesi di una instabilità che travasa in territorio russo – dove peraltro vive una consistente comunità musulmana – non è negoziabile per Putin, interessato in questo momento anche a garantire la sicurezza delle sue basi militari in Tagikistan e Kirghizistan.

Gli studenti coranici ‘per Mosca e per l’Asia centrale non sono un problema finché non oltrepassano i confini afghani, non forniscono un rifugio all’estremismo transfrontaliero’, ha scritto il direttore del Carnegie Center di Mosca, Dmitri Trenin. Putin, in conferenza stampa con la cancelliera Angela Merkel, ha ammonito sul rischio del dilagare di terroristi, anche sotto le mentite spoglie di profughi.

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Gli analisti si aspettano che Mosca rilancerà uno sforzo diplomatico per costruire il dialogo con la nuova leadership afghana e gestire anche i flussi migratori. Se da una parte il frettoloso ritiro americano può, d’ora in avanti, essere usato dal Cremlino come emblema dell’inaffidabilità occidentale verso gli alleati, dall’altra pone anche il quesito su dove ricollocherà Washington la sua presenza militare nella regione: Putin (come anche la Cina) non vuole il ricollocamento di truppe Usa nel ventre molle centro asiatico e, secondo rivelazioni del Wall Stree Journal, lo avrebbe detto chiaramente al presidente Joe Biden al vertice di giugno a Ginevra.

D’altro canto, malgrado la sconfitta militare dell’89, infatti, l’attenzione dei russi sul paese è rimasta sempre alta. Da lì passa il traffico di oppio, clandestini e anche di terroristi attraverso le deboli repubbliche uzbeka e tajika, ambedue “giardino” della Federazione nell’Asia centrale. Ma negli ultimi due anni l’interesse del Cremlino è stato sempre più forte: colloqui con i talebani paralleli a quelli dell’amministrazione Trump e strette relazioni diplomatiche con il governo di Kabul che, nonostante l’alleanza con la Nato, si è mostrato ben disposto a ricevere il sostegno russo: “Voglio ringraziarvi per l’aiuto che la Russia ha fornito all’Afghanistan in 15 anni per contribuire a ripristinare la pace e la stabilità nel nostro Paese”. Queste le parole che il chief executive officerdel governo afghano Abdullah Abdullah rivolgeva al premier russo Dimitri Medvedev durante gli incontri di Mosca del 3 novembre 2018.

E, in tempi non sospetti, nel lontano 2012, il ministro plenipotenziario agli Esteri Lavrov ricordava l’importanza, per il suo paese, di monitorare la situazione afghana. Per Mosca, dunque, il ritiro della NATO rappresenta una duplice conquista: da un lato, la perdita di uno scomodo avversario in un’area geografica che rientra nel suo spazio di influenza. Dall’altro l’opportunità di poter screditare l’operato dell’Alleanza nel Paese degli Aquiloni. Vi è poi un ritorno di carattere storico-culturale. La guerra del 1979-1989 ha profondamente segnato l’Unione Sovietica prima e la Russia poi: la prima, sonora sconfitta del gigante russo dalla Prima Guerra Mondiale. Dunque, Putin cercherà di presentare al mondo il ritiro statunitense quale fallimento di Usa e Nato in Afghanistan, mostrando Mosca quale ponte (economico in primis, poi diplomatico e politico) per il rilancio e per la stabilità del paese centro-asiatico. Una vittoria per cancellare un passato costato 20 mila morti, accuse di crimini guerra e che ha contribuito al collasso dell’Urss.

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Il Gigante cerca una nuova Via

Rimarca Giuseppe Gagliano su Startmagazine: “L’Afghanistan – soprattutto per la Cina – rappresenta uno snodo fondamentale   per la Nuova Via della seta e per le risorse minerarie presenti. A proposito del modus operandi della Cina, si deve ricordare l’estrema abilità sotto il profilo politico che la Cina ha ancora una volta dimostrato nel costruire la propria tela intorno al regime talebano, come dimostra l’incontro avvenuto il 28 luglio in Cina tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e Mullah Abdul Ghani Baradar. Durante il quale il ministro cinese non solo ha esplicitamente promesso il sostegno cinese per la ricostruzione dell’Afghanistan, ma contestualmente aveva anche chiesto in modo inequivocabile ai talebani di interrompere ogni legame con l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), accusato dal Dragone di aver posto in essere diversi attacchi terroristici nello Xinjiang. A tale proposito, infatti, non va dimenticato che per il dragone all’interno della etnia degli uiguri che vivono nello Xinjiang vi sarebbero persone affiliate all’organizzazione terroristica il cui scopo è quello di creare uno Stato islamico indipendente nel Turkestan dell’Est, cioè nello Xinjiang.

Quattro motivi per dialogare

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A elencarli, riempendoli di contenuti, è Claudio Bertolotti, Ispi Associate Research Fellow: “Il primo è la ricerca cinese di un’area di influenza da sottrarre agli Stati Uniti, che si stanno di fatto disimpegnando dal paese, e che, in un’ottica di competizione con l’India, consenta a Pechino di avere una continuità territoriale che dal Pakistan all’Afghanistan permetta di creare un ponte commerciale diretto con l’Iran e la Russia.

Il secondo è un più ampio margine di manovra nella tutela degli interessi legati alla Nuova Via della Seta che ha una diramazione in Pakistan e garantisce uno sbocco marittimo a sud: e un Afghanistan sicuro è una garanzia per gli investimenti cinesi perché un’amministrazione stabile e cooperativa a Kabul aprirebbe la strada a un’espansione della Nuova Via della Seta in Afghanistan e attraverso le repubbliche dell’Asia centrale.

Il terzo motivo è strettamente legato alla sicurezza interna della Cina, nello specifico l’opposizione violenta di alcuni gruppi jihadisti tra la comunità uigura dello Xinjiang e la conseguente politica repressiva del governo cinese. La frontiera tra i due paesi è lunga solamente 76 chilometri – e ad alta quota e priva di un collegamento stradale – ma Pechino teme che l’Afghanistan possa essere usato come base logistica per i separatisti e i jihadisti uiguri, con il sostegno degli stessi talebani. Ed è per questo che Wang Yi ha chiesto ai talebani di agire con determinazione e in qualunque modo per eliminare i gruppi uiguri presenti in Afghanistan, con esplicito riferimento al gruppo terrorista noto come movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM, East Turkestan Islamic Movement), che Pechino considera una minaccia diretta alla sicurezza nazionale.

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Infine, il quarto è un motivo strategico di natura economica: la Cina detiene la maggior parte dei diritti estrattivi dal sottosuolo afghano e l’Afghanistan, oltre ad essere ricca di idrocarburi – è cinese l’azienda che per prima ha estratto petrolio nel paese – è forse la più ricca miniera al mondo a cielo aperto di minerali preziosi e minerali rari, strategicamente importanti per l’economia cinese che avrebbe accesso diretto a una ricchezza dal valore potenziale di 3 trilioni di dollari. Ma l’Afghanistan deve essere stabilizzato per consentire l’accesso cinese all’area, e qui entrano in gioco i talebani ai quali sarebbe garantito il riconoscimento politico e l’accesso agli ampi guadagni derivanti dalle attività estrattive e commerciali.

I Talebani hanno garantito ai cinesi che l’Afghanistan non sarà utilizzato da gruppi terroristi per colpire altri stati (e dunque la Cina). Ma è bene ricordare che sono gli stessi talebani che pochi mesi fa hanno garantito agli Stati Uniti che avrebbero cessato le violenze per dialogare con il governo afghano. Non dobbiamo farci illusioni, né essere sorpresi per l’interesse cinese per l’Afghanistan”.

Gli altri attori esterni

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Pierre Centlivres, figura di spicco dell’Istituto di etnologia di Neuchâtel, ha dedicato gran parte delle sue ricerche all’Afghanistan. Assieme alla moglie Micheline, anch’essa etnologa, ha pubblicato diverse opere che permettono di capire il Paese e i suoi abitanti. Una comprensione che è ampiamente sfuggita a Washington e ai suoi alleati. “Il Pakistan – rimarca Centlivres in una intervista alla Tv svizzera .  ha, dietro le quinte, aiutato fortemente i talebani e incoraggiato la loro progressione. Per non farsi cogliere di sorpresa, Islamabad vuole allontanare l’Afghanistan dall’India, la quale ha aperto diversi consolati e lanciato una serie di programmi.

Gli Stati dell’ex Unione sovietica come il Tagikistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan temono l’influenza dei gruppi islamisti che potrebbero provocare disordini sul loro territorio dall’Afghanistan. L’Iran ha aiutato i talebani a livello locale, ma solo per danneggiare gli americani. Fondamentalmente, l’Iran non sosterrà i talebani, che sono dei sunniti convinti. Teheran potrebbe impedire un’eccessiva emigrazione afgana verso il suo territorio. I cinesi hanno interessi nelle risorse minerarie afgane, tra cui il rame. Quindi penso che cercheranno di avere buone relazioni con i talebani senza moralismi o politiche ideologiche.

Ma è il Pakistan ad avere in mano le chiavi della situazione. È il Pakistan che controlla le rotte tra Kabul e i porti come Karachi. La maggior parte del commercio passa attraverso il Pakistan e l’Iran”.

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Tra gli attori di prima e seconda fila  nel nuovo teatro afghano spicca l’assenza dell’Europa. Ma questa, purtroppo, non è una più una novità. Per chi è fuggito dal “cimitero degli imperi”, con vent’anni di ritardo, c’è rimasto solo qualche strapuntino in loggione. 

 

 

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