Patrick Zaki, la detenzione senza fine e il cambio di carcere: quando al peggio non c'è mai fine
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Patrick Zaki, la detenzione senza fine e il cambio di carcere: quando al peggio non c'è mai fine

Al ventunesimo mese dall'arresto, alle incertezze che ormai dominano sulla vita di Patrick si aggiunge quella che sarà il luogo in cui potrà essere trasferito, dopo la chiusura del carcere di Tora

La sagoma di cartone di Patrick Zaki all'Università di Bologna
La sagoma di cartone di Patrick Zaki all'Università di Bologna
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Novembre 2021 - 08.33


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Quando si dice che “al peggio non c’è mai fine”.

Presto Patrick Zaki, il giovane studente detenuto a Tora, a Il Cairo, sarà trasferito in un altro carcere perché la struttura dove si trova sta per chiudere. Lo segnalano in un post sui social gli attivisti di “Patrick libero”, i quali temono che la nuova destinazione abbia “condizioni peggiori” e che le visite “non saranno permesso nel periodo iniziale”.La notizia è stata segnalata dai genitori del ricercatore che sabato sono stati a fargli visita a Tora. Lo stesso Patrick, spiegano gli attivisti, ha detto ai genitori che “è stato informato che la struttura della prigione di Tora sta chiudendo, il che significa che dovrà essere trasferito in un’altra struttura di detenzione”. Al momento, non sono ancora state fatte dichiarazioni ufficiali, quindi non si sa quando e dove lo studente egiziano dell’università di Bologna in arresto in Egitto da febbraio 2020 sarà trasferito. “Siamo molto preoccupati che possa essere trasferito in una prigione con condizioni di vita peggiori”, sottolineano gli attivisti ricordando che “quello che sappiamo è che non sarà trasferito nel nuovo complesso carcerario di Wadi El Natroun, perché la struttura è solo per detenuti e non per detenuti politici. Inoltre, siamo anche preoccupati che le visite non saranno permesse per il primo periodo di tempo nella nuova struttura di detenzione, come avviene di solito quando un prigioniero viene trasferito in un’altra struttura di detenzione e questo significa che sarà lasciato senza rassicurazioni, forse cibo, vestiti o necessità di base, fino a quando la sua famiglia sarà autorizzata a visitarlo di nuovo”. 

Nel post, gli attivisti si dicono in attesa di una dichiarazione ufficiale “per sapere cosa significherà questo per Patrick, ma la verità è che probabilmente non ci sarà nessuna dichiarazione ufficiale e sentiremo per caso che la prigione è chiusa o la sua famiglia andrà a trovarlo solo per rendersi conto che è stato trasferito e in entrambi i casi i suoi avvocati dovranno andare a cercarlo nei registri della prigione per sapere dove lo hanno trasferito perché nessuno notifica nulla alle famiglie. Speriamo che questo non lo metta in circostanze ancora peggiori di quello che ha passato nell’ultimo anno e 9 mesi”.

Amnesty International: “Somma di incertezze che logora”  

“Questa somma di incertezze sta veramente logorando lo stato d’animo di Patrick. Sarebbe importante che questa vicenda si chiudesse felicemente al più presto”, afferma Riccardo Noury, portavoce Amnesty International Italia, commentando le notizie sul possibile trasferimento di carcere per lo studente egiziano.

“Alla vigilia del ventunesimo mese dall’arresto, alle incertezze che ormai dominano sulla vita di Patrick si aggiunge anche una nuova incertezza su quello che sarà il luogo in cui potrà essere trasferito, giacché le notizie sulla chiusura del centro di detenzione di Tora si rincorrono – dice Noury – Non c’è ancora nulla di certo, rispetto a un eventuale luogo di detenzione, ma quello che le autorità egiziane hanno annunciato è che in questo processo di trasferimento di detenuti da vecchie a nuove carceri, con ogni probabilità si tratterà di luoghi più lontani e nei quali almeno all’inizio le visite familiari non saranno facili”. Iniziato a metà settembre dopo un anno e mezzo di custodia cautelare in carcere, il processo a carico di Zaki ha una nuova udienza fissata per il 7 dicembre. In quel giorno saranno 22 mesi di carcere per il ricercatore.

Odissea infinita

Patrick era stato arrestato in circostanze controverse il 7 febbraio del 2020 ed è stato detenuto per quasi tutto il tempo a Torah, il famigerato carcere alla periferia sud del Cairo. La custodia cautelare in Egitto può durare due anni e dopo una prima fase di cinque mesi di rinnovi quindicinali ritardati dall’emergenza Covid il caso è stato a lungo in quella dei prolungamenti di 45 giorni. 

“I parlamentari e le parlamentari che, al Senato e alla Camera, hanno detto con un voto chiaro e forte che Patrick Zaki è un cittadino italiano, facciano sentire la loro voce in modo altrettanto chiaro e forte nei confronti del governo, ora che inizia il processo”, rimarca Noury. In caso di condanna al massimo della pena prevista per questo tipo di reato, Zaki rischia di rimanere in carcere altri 3 anni e 5 mesi. “Sì, legalmente è vero. Non abbiamo motivo di immaginare che la pena sarebbe conteggiata diversamente”, ha detto all’Ansa Lobna Darwish dell’Eipr, l’“Iniziativa egiziana per i diritti personali”, rispondendo alla domanda se i mesi già trascorsi in carcere da Patrick gli verrebbero abbonati in caso di condanna. In caso di una sentenza inferiore ai 19 mesi, dovrebbero liberarlo subito. 

“Qualsiasi egiziano che ha pubblicato notizie, comunicazioni o indiscrezioni sulla situazione interna in modo tale da danneggiare lo Stato e gli interessi nazionali sarà condannato al carcere tra i 6 mesi e 5 anni e a una multa tra 100 a 500 sterline egiziane ai sensi dell’articolo 80 della legge”, avevano ricordato all’Ansa nel giugno scorso fonti giudiziarie riferendosi al caso di Patrick. A causa dell’inflazione altissima in Egitto soprattutto negli anni passati, ormai 100-500 sterline egiziane valgono tra 5 e 27 euro.

Quel carcere, un inferno.

Così Antonella Napoli tratteggia, in un articolo per Avvenire, del carcere di massima sicurezza in cui è imprigionato Patrick: “Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19…”.

Ed ancora: “Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire. 

Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione ‘Scorpion’ – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione’ conclude l’attivista.

Non sorprende che ai prigionieri della ‘Scorpion’ venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio”, conclude Napoli.

E ora Patrick sarà trasferito in un carcere ancora peggiore. 

Più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. 

Desaparecidos

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. Secondo fonti indipendenti a Il Cairo, ascoltate da Globalist, le persone “sparite” nelle carceri del regime superano l’agghiacciante numero di 40mila, superiore, per avere una idea di chi stiamo scrivendo, ai “desaparecidos” fatti fuori dalla giunta militare fascista del generale Videla in Argentina.

“Zaki o mai”.

Ha scritto Francesca Paci su La Stampa “Al crocevia tra le umane sorti e progressive e la ragion di Stato sta Parick George Zaki, un simbolo ormai che, forzando parecchio la mano, può evocare addirittura l’accanimento contro Dreyfus, il capro espiatorio per eccellenza della cattiva coscienza allora antisemita. Zaki, il volto di una generazione bruciata a Tahrir ma anche l’epigono delle speranze copte in un regime inizialmente considerato salvifico, rappresenta molto più del ragazzo che è. Per l’Egitto, dove lo scontro con l’intellighenzia liberal e cosmopolita è l’estrema fase della guerra per accaparrarsi la narrazione degli ultimi vent’anni. E per l’Italia, che non ha rinunciato a chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni ma che, incassando un rimpallo dietro l’altro, si è fatta afona, defilata. Per questo non possiamo mollare Zaki. Perché è un simbolo e porta dentro di sé tutti gli innominabili Regeni egiziani. Insiste, il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury a domandare “all’amico al Sisi” una prova del legame che unisce l’Italia all’Egitto. Insistono i compagni bolognesi, le tante amministrazioni che hanno già concesso la cittadinanza, insiste chi pure non si aspetta nulla dall’udienza di oggi. Per l’Egitto e per l’Italia. O Zaki o mai”. 

Noi di Globalist non smetteremo mai di ricardarlo a chi continua a genuflettersi (non è così, ministro Di Maio?” davanti al presidente-carceriere d’Egitto: Abdel Fattah al-Sisi.

 

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