Berlusconi, Gentiloni, Renzi: cambiano i ministri ma la vendita d'armi allo Zar Putin continua.
Top

Berlusconi, Gentiloni, Renzi: cambiano i ministri ma la vendita d'armi allo Zar Putin continua.

Dopo il record di autorizzazioni rilasciato nel 2011 dal governo Berlusconi (106.070.470 euro), spicca la consistente autorizzazione alla Russia del 2015 concessa dal governo Renzi, con Gentiloni agli Esteri, (25.708.470) nonostante l'embargo

Berlusconi, Gentiloni, Renzi: cambiano i ministri ma la vendita d'armi allo Zar Putin continua.
Un autoblindo Lince
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Marzo 2022 - 14.42


ATF

Un particolare che non è sfuggito ad occhi esperti e allenati. A marciare su Kiev vi sono anche alcuni dei 350 autoblindati Lince venduti all’esercito di Mosca dall’italiana Iveco.

Un affare di qualche anno fa, certo, dei tempi di Berlusconi.

Quei rapporti privilegiati

Giorgio Beretta è tra i massimi esperti nel campo degli studi sulle spese militari, oltre che anima di Rete Italiana Pace e Disarmo (Ripd). . Così scriveva Beretta in una (come sempre) documentata analisi, il 14 maggio 2012: “Alla Russia dell’amico Putin, il governo Berlusconi nel 2011 ha autorizzato un record di esportazioni militari italiane di oltre 99 milioni di euro (si veda la Tabella 4 del Rapporto): dall’intera Relazione di oltre 2.500 pagine non è possibile però sapere di quali sistemi si tratti a parte dieci autocarri modello M65E19WM protetti e completi di dotazioni proprie della Iveco per un valore totale di 2.750.000 euro.

La storia si ripete

E veniamo alla guerra in corso. Scrive sempre Beretta: “Se le esportazioni di materiali militari italiani verso l’Ucrainasono poche e limitate al 2014 (circa 6,5 milioni di euro), molto più consistenti sono quelle per “armi comuni” e soprattutto fucili, tra cui fucili semiautomatici che però possono essere stati destinati anche a corpi di polizia e enti governativi: dal 2015 hanno registrato una costante crescita passando da 84.278 euro nel 2015 a 1.899.652 euro nel 2016, 2.987.203 euro nel 2017, 2.979.610 euro nel 2018, 2.990.463 euro nel 2019 fino a 3.489.224 nel 2020 e oltre 3.880.431 euro nel 2021.

Ma ancor più consistenti sono le esportazioni militari verso la Russia.

Dopo il record di autorizzazioni rilasciato nel 2011 dal governo Berlusconi (106.070.470 euro), spicca la consistente autorizzazione alla Russia del 2015 concessa dal governo Renzi, con Gentiloni agli Esteri, (25.708.470) nonostante fosse in vigore l’embargo di armamenti deciso a livello europeo il 31 luglio del 2014 per il coinvolgimento russo nel conflitto in Ucraina: si tratta di 94 veicoli blindati Iveco modello M65E19WM 4×4, meglio conosciuti in Russia come Lynx, di cui 83 sono stati consegnati nello stesso anno. Negli ultimi anni non sono state concesse licenze di esportazione di armamenti dall’Italia alla Russia. Ma idati del commercio estero dell’Istat segnalano per il 2021 una ripresa: tra i 21.942.271 euro di “armi e munizioni” già consegnate tra gennaio e novembre del 2021, oltre a “armi comuni” come fucili (13.742.231 euro), pistole (151.074 euro), munizioni (4.093.689 euro) e accessori (837.170 euro), figurano 3.118.107 di euro di armi e munizioni destinate a corpi di polizia o enti governativi russi. A dimostrazione che l’Italia riesce sempre ad addomesticare embarghi e sanzioni”, conclude Beretta.

Industria di Stato

Altro autore da leggere con la massima attenzione quando si parla di armamenti è Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne di Rete Italiana Pace e Disarmo e fondatore dell’Osservatorio Milex -.  La maggior parte dei produttori russi di armamenti è controllata dallo Stato, sia direttamente che tramite partecipazioni societarie. La principale è la Rostec, nel cui ambito si collocano tra gli altri Russian Helicopters e Kalashnikov Concern. Sotto il controllo di Rostec c’è anche la holding aeronautica United Aircraft Corporation, che produce aerei di marchi noti come Ilyushin, Sukhoi, Tupolev, Yakovlev… ancora oggi (come per altre tipologie di armamenti) la spina dorsale dei sistemi d’arma delle Forze Armate russe.

Leggi anche:  Ucraina, al via i risarcimenti per le donne vittime di violenza sessuale da parte dei militari russi

Il principale produttore di armi russo è però il conglomerato Almaz-Antey, anch’esso figlio di “risistemazioni” volute da Putin. Che si colloca nella Top20 delle maggiori compagnie di produzione militare al mondo, come si vede dai dati elaborati dal Sipri di Stoccolma. Tra i suoi prodotti troviamo sistemi di difesa e guida, missili da crociera, sistemi di navigazione, armi leggere, droni, artiglieria navale e terrestre… Insomma il cuore vero della produzione armiera russa.

Un comparto industriale ed economico cruciale per la Russia

Complessivamente stiamo parlando di un comparto industriale ed economico davvero cruciale per il Paese. Tra i 2 e i 3 milioni di occupati, forse il 20% di tutta la produzione manifatturiera della Russia. Che non a caso il governo di Putin ha voluto rilanciare fortemente. Ovviamente oltre alla necessità di controllare una parte rilevante dell’economia interna, il rafforzamento strategico dell’industria militare aveva anche una motivazione di spinta all’export (per rilevanza economica ma anche politica). Già ora la Russia è seconda nel mondo solo agli Usa. Non stupisce dunque che anche in questo caso ci sia un controllo statale stringente. All’interno della già citata holding Rostec troviamo infatti Rosoboronexport, unico intermediario possibile per import-export di materiali e servizi per la difesa.

Nel 2011, proprio alla vigilia della risistemazione del comparto, la Federazione Russa ha lanciato un programma decennale di riarmamento denominato GPV-2020. Che ha cercato di aggiornare il materiale militare a disposizione delle Forze Armate e sviluppare nuovi prodotti. Di conseguenza a fine 2021 Putin ha iniziato a spingere export di armi (“provate” in molti conflitti recenti, a partire dalla Siria): «Le armi russe hanno sempre goduto della domanda sul mercato globale e proteggono in modo affidabile la sicurezza di molti Paesi del mondo».

Il cerchio quindi si chiude, con una strategia di rafforzamento durata 10 anni, e quindi con un complesso militare-industriale che ha sempre più peso anche in decisioni strategiche (e di “ritorni” di vario genere). Anche in questa ottica credo si debbano collocare le scelte di escalation di Putin delle ultime settimane”.

Così Vignarca

Più putiniano di Putin

Lo è stato per lungo tempo Manlio Di Stefano, sottosegretario 5Stelle agli Esteri. Lo è stato da membro di governo, con Conte e ora con Draghi, e pure prima quando era responsabile esteri alla Camera dei pentastellati.

Così da sottosegretario si esprimeva nel 2019, in un meeting commerciale a San Pietroburgo: “I rapporti diplomatici tra Italia e Russia risalgono all’Unità di Italia e quelli sociali addirittura a 500 anni fa. Due popoli che si rispettano da sempre con una naturale propensione alla collaborazione culturale, artistica e scientifica prima ancora che economica. C’è più Italia nei musei di Mosca e San Pietroburgo e nelle accademie della Federazione di quanta ce ne sia in svariati Paesi nel mondo.
La Russia è un Paese prioritario per la nostra strategia di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese ed è per noi un partner economico e commerciale imprescindibile con un interscambio che nell’ultimo anno ha superato i 21 miliardi di euro e un potenziale di incremento del nostro export del 5% per i prossimi tre anni.

Leggi anche:  Ucraina, gli Usa valutano l'ipotesi di mandare altri consiglieri militari alla propria ambasciata a Kiev

La Russia è il nostro primo fornitore di gas naturale e il nostro quinto fornitore di petrolio greggio. L’Italia è quindi il ponte naturale tra la Russia (e la sua sfera di influenza) e l’Unione Europea.
Questo ruolo, tra le altre cose, è testimoniato dalla nostra presenza massiccia e qualificata al Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo che, oltre alla mia presenza politica, vede la partecipazione di tutte le più significative aziende italiane e della loro filiera di piccole e medie imprese. Oltre ai settori cardine come l’energia e le infrastrutture (che rimangono strategici), il nostro nuovo approccio bilaterale punta decisamente all’innovazione, al digitale e all’industria meccanica altamente specializzata. In questi settori c’è un enorme potenziale ancora inespresso: dalle “smart grid” (gestione digitalizzata delle reti di distribuzione elettrica) al trasporto “intelligente”, dalla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione alle reti wi-fi cittadine.

Esistono ben 272 intese tecniche sottoscritte tra nostre istituzioni accademiche e università russe in materie scientifiche e sono numerose ormai le start-up italiane che partecipano alle opportunità offerte dagli incubatori d’impresa che, come “Skolkovo”, beneficiano di intese bilaterali. Tutto questo avviene in un clima internazionale che avrebbe chiaramente bisogno di un cambio di passo, di una ridefinizione dei quadri normativi a garanzia del multilateralismo e del rispetto dei principi cardine dell’ordine mondiale ovvero “predictability” e “rules based system” (prevedibilità delle scelte politiche e sistema basato su regole certe).

In questo clima caotico la nostra Italia, storicamente e fieramente centrata nell’Unione Europea e nell’Alleanza Atlantica, sta giocando un ruolo da mediatrice nell’equilibrio tra Occidente e Oriente. Come ha detto giustamente il Presidente Putin in un’intervista rilasciata ieri, l’Italia “fa parte di Nato e UE ma fra di noi c’è un rapporto speciale”. Rapporto che va protetto orientando anche l’Unione Europea ad un approccio più oggettivo nel fact-checking, nel monitoraggio e, in generale, in tutte le attività propedeutiche al rinnovo del regime sanzionatorio. È insensato, ad esempio, che il cosiddetto “Formato di Normandia”, che ha il compito di monitorare l’attuazione degli accordi di Minsk, sia composto esclusivamente da Francia e Germania (oltre a Russia e Ucraina ovviamente), l’Italia poteva e doveva farne parte.

La nuova Unione Europea dovrà porsi anche questa domanda: di chi stiamo coltivando gli interessi facendo muro contro muro con un partner strategico come la Federazione Russa?  Dalla risposta che si darà potrebbero cambiare tante carte in tavola e quelle carte, questa volta, le servirà anche la nostra nuova Italia. Avanti così”.

Dici, beh si è lasciato trasportare dall’entusiasmo…Se non fosse che già nel 2016 la linea di Di Stefano era la stessa del Cremlino: il vice del ministro degli Esteri Luigi Di Maio definiva l’Ucraina uno stato fantoccio della Nato (Usa e Ue)”. Parlando del referendum olandese sul trattato europeo con Kyiv, Di Stefano diceva che le persone hanno “iniziato a comprendere chiaramente quello che è accaduto nel Donbass, a Kiev e in Crimea.Hanno capito che il colpo di stato in Ucraina nel febbraio del 2014, finanziato dall’Ue e dagli Usa, non è quello che la ‘libera’ informazione ha venduto: una grande battaglia di libertà e di democrazia. E’, invece, il creatore di un mostro istituzionale senza precedenti, un governo composto da convinti neo-nazisti e la peggior tecnocrazia finanziaria internazionale”. Sempre nel 2016 volò a Mosca per rappresentare il M5S al congresso di Russia Unita, il partito di Putin. 

Leggi anche:  Zelensky insiste sui missili Patriot per creare uno scudo aereo contro gli attacchi missilistici russi

“Putin circondato”, era il titolo di un suo scritto sul blog di Beppe Grillo. L’Ucraina è stata prima violata con un vero e proprio colpo di stato ad opera dell’Occidente – scriveva –, poi si è rimpiazzata la sua amministrazione con una vicina agli Usa e, adesso, la si vuole trasformare in una base Nato per lanciare l’attacco finale alla Russia”. Esattamente le stesse argomentazioni usate da Putin per giustificare l’invasione dell’Ucraina.

Nel 2017, il responsabile esteri del M5s organizzò un convegno dal titolo Se non fosse Nato” in cui si parlava apertamente di un’uscita dell’Italia dall’Alleanza atlantica, un’organizzazione che “ha di fatto perso il motivo alla base della sua esistenza”, scriveva Di Stefano, perché era uno strumento di aggressione per il perseguimento di tre obiettivi strategici degli Stati Uniti: mantenere il dominio militare in Europa, controllare qualsiasi possibile rinascita della Russia e avere ‘il cappello’ da utilizzare per tutti gli interventi bellici in cui si è voluto ‘esportare la democrazia’ e i diritti umani”. Questi concetti non sono le bizzarrie di un singolo deputato, ma la linea del M5s: “La miopia della politica estera italiana, dell’Ue e dell’Amministrazione Obama – recita il programma elettorale del 2018 – non ha permesso di cogliere i timori della Russia e interpretare le azioni di Mosca come volte al mantenimento della sua sfera d’influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”.

Ora, si può cambiare anche idea, ci mancherebbe altro, ma una riflessione autocritica sul passato, no?

Quei Lince in ogni dove

Finiamo da dove avevamo iniziato. Dai Lince made in Italy.

Putin è impegnato a sostenere il “macellaio di Damasco”, al secolo Bashar al-Assad, in una guerra contro il popolo siriano. Il sostegno di Mosca, unito a quello dell’Iran e di Hezbollah libanese, ha mantenuto in vita Assad e il suo regime sanguinario.

Nel 2015, scrive il 5 ottobre di quell’anno Il Foglio, in  Siria circolano immagini dei veicoli militari Lince made in Italy. La prima fotografia risale a metà gennaio a quanto si capisce i Lince sono ora in dotazione sia alle forze russe arrivate da poco in Siria sia direttamente alle forze siriane – anche se non ci sono conferme dirette. La spiegazione più semplice è che si tratti dei veicoli Lince prodotti nel 2013 dalla Russia grazie a un accordo con l’italiana Iveco, in circa 350 esemplari, e ora trasferiti in Medio Oriente via nave fino al porto di Latakia.

Sette anni dopo, da Latakia i Lince si muovono alla conquista di Kiev. Chissà cosa ne pensa il sottosegretario Di Stefano.

Native

Articoli correlati