Migranti: la logistica della crudeltà si combatte anche con i ricorsi europei
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Migranti: la logistica della crudeltà si combatte anche con i ricorsi europei

La “logistica della crudeltà”, si combatte in tanti modi. Con la disobbedienza civile, in terra e in mare. E anche con i ricorsi e i reclami. 

Migranti: la logistica della crudeltà si combatte anche con i ricorsi europei
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Luglio 2023 - 13.14


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La “logistica della crudeltà”, si combatte in tanti modi. Con la disobbedienza civile, in terra e in mare. E anche con i ricorsi e i reclami. 

Contro la “logistica della crudeltà”

Cinque Ong hanno presentato un reclamo alla Commissione europea sulla legge italiana 15/2023 e sulla prassi, da parte delle autorità italiane, di assegnare porti di sbarco distanti dall’area in cui è avvenuto il soccorso di migranti. Secondo Medici senza Frontiere, Oxfam Italia, Sos Humanity, Associazione per gli Studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e Emergency, “la legge solleva serie preoccupazioni in merito alla sua compatibilità con il pertinente diritto dell’Ue e agli obblighi degli Stati membri ai sensi del diritto internazionale in materia di attività di ricerca e soccorso in mare”. 

“La Commissione europea è custode dei trattati dell’Ue e ha un ruolo da svolgere nel garantire che gli Stati membri rispettino il diritto internazionale e dell’Ue – afferma Giulia Capitani, consulente per le politiche migratorie di Oxfam Italia – Dovrebbe sostenere e proteggere i diritti fondamentali di tutte le persone in tutta Europa. Ma invece, le Ong di ricerca e soccorso sono quelle che riempiono il vergognoso vuoto in mare lasciato dagli Stati membri. Piuttosto che ostacolare il loro lavoro, gli Stati dovrebbero coinvolgerli nella creazione di un sistema adeguato per le attività di ricerca e soccorso”. 

Secondo le Ong che hanno presentato denuncia, la legge 15/2023 pone “restrizioni ingiustificate alle operazioni di ricerca e soccorso e limita drasticamente la loro capacità di salvare vite in mare”. “Ogni giorno che trascorriamo lontano dalla regione di ricerca e soccorso, sia in detenzione che in navigazione verso un porto lontano, sta mettendo a rischio vite umane – sottolinea Djoen Besselink, responsabile delle operazioni di Msf – La legge prende di mira le Ong ma il vero prezzo sarà pagato dalle persone in fuga attraverso il Mediterraneo che si trovano su una barca in difficoltà”. 

“Assegnare luoghi sicuri a più di mille km di distanza da un salvataggio – afferma Josh, capitano della nave di soccorso di Sos Humanity 1 – danneggia il benessere fisico e psicologico dei sopravvissuti”. “Le persone soccorse – gli fa eco Carlo Maisano, coordinatore della nave di soccorso Life Support di Emergency – provengono da paesi colpiti da guerre, cambiamenti climatici e violazioni dei diritti umani. Sono spesso in una condizione estremamente fragile, che è esacerbata da ancora più tempo trascorso in mare”. L’aumento delle distanze ha anche un impatto negativo sulle Ong. 

“La pratica di assegnare porti lontani aumenta i costi del carburante e esaurisce i loro budget limitati – spiega Maisano – il che influisce sulla loro capacità di salvare vite umane in futuro”, afferma. Altro problema il blocco delle navi. Il 23 febbraio 2023, la legge 15/2023 all’epoca era ancora un decreto legge, l’Autorità portuale di Ancona ha notificato a Msf un ordine di detenzione di 20 giorni per la sua nave e una multa di 5.000 euro per non aver fornito informazioni specifiche. Da allora, le autorità italiane hanno trattenuto altre quattro navi umanitarie di ricerca e soccorso per un periodo di 20 giorni, ciascuna per violazione della legge 15/2023. “Ciò – sottolineano le Ong – equivale a un totale di 100 giorni persi per le navi di ricerca e soccorso umanitario, mentre sono continuati pericolosi attraversamenti e naufragi nel Mediterraneo centrale”.

Il paradosso di un governo che chiede aiuto alla ong che manda Salvini a processo

E’ il titolo, azzeccatissimo, de Il Foglio ad una puntuta analisi di Luca Gambardella.

“Il governo  – rimarca tra l’altro Gambardella . che fletteva i muscoli con annunci roboanti su fantascientifici blocchi navali, l’illusione delle zero partenze, con la tolleranza zero verso le ong e che rivendicava i porti chiusi, ha finito per chiedere aiuto alle stesse ong per salvare i migranti in mare. Un testacoda che è un bagno di realtà per l’esecutivo di Giorgia Meloni, in particolare per il suo ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, l’ideologo della bufala dei porti chiusi da mesi a processo a Palermo per la sua guerra sconsiderata alle ong. Succede allora che nel silenzio generale lo scorso 6 luglio la Guardia costiera italiana abbia chiesto espressamente all’ong Open Arms di effettuare non una, ma ben sei operazioni di salvataggio. Mostrando un livello di coordinamento che non si vedeva almeno dal 2018, il Comando generale delle capitanerie di porto di Roma e le navi delle umanitarie si sono ritrovati insieme a salvare persone. “Una situazione di normalità”, la definisce al Foglio Veronica Alfonsi, portavoce dell’ong spagnola. Una normalità che non ti aspetti, da chi invece, persino dopo la strage di Cutro dello scorso febbraio, aveva gonfiato il petto facendo capire che il governo non aveva alcuna intenzione di cedere alla commozione collettiva suscitata dalla morte di almeno un centinaio di persone. Il decreto che ne seguì, quello della “caccia ai trafficanti su tutto il globo terracqueo”, prevedeva anche la regola per le ong di effettuare un solo salvataggio per volta e poi di rientrare rapidamente al porto assegnato da Roma. Ora però le cose sembrano essere cambiate.  La pressione migratoria, soprattutto dalla Tunisia, è talmente elevata da rendere impossibile il rispetto tassativo dell’equazione “una missione, un salvataggio”.  

Intanto sparano dalle motovedette regalate dall’Italia

“Vogliamo sapere se il governo intenda adoperarsi al fine di sospendere ogni sostegno alla Libia, subordinando qualsiasi assistenza futura a progressi tangibili da parte delle autorità libiche in relazione al rispetto dei diritti dei migranti e al loro accesso alla giustizia, ponendo anche tale questione nelle competenti sedi dell’Unione europea”. È quanto si legge nell’interrogazione parlamentare ai ministri Matteo Piantedosi, Antonio Tajani e Guido Crosetto presentata dall’Alleanza Verdi Sinistra, primo firmatario Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana. “Lo scorso venerdì 7 luglio la guardia costiera libica – si legge nell’atto ispettivo – ha esploso diversi colpi di arma da fuoco durante una operazione di soccorso della ong SOS Mediterranée avvenuta in acque internazionali, al largo della costa della Libia; fortunatamente nessuna persona è rimasta ferita, e già nel marzo scorso, la stessa Sos Mediterranée aveva denunciato di essere stata oggetto di colpi di arma da fuoco da parte della guardia costiera libica, sempre durante un’operazione di salvataggio in acque internazionali”. “Come ha rivelato il giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura, – prosegue l’interrogazione parlamentare – la nave utilizzata dai libici era uno dei due pattugliatori consegnati il 22 giugno scorso dall’Italia alle autorità di Tripoli nell’ambito del progetto Ue ‘Sostegno alla gestione integrata delle frontiere e della migrazione in Libia’. La guardia costiera libica è stata più volte accusata di infiltrazioni da parte della stessa criminalità organizzata che gestisce il traffico di esseri umani tra l’Africa e l’Europa”. “Il nostro Paese non può rendersi, anche indirettamente, complice di tali azioni violente ed illegali che la guardia costiera libica adotta contro i migranti anche attraverso l’utilizzo di mezzi forniti dall’Italia”, conclude Fratoianni.

Il mistero del deserto

Ci torna Simone Santi per Lifegate: “Il deserto lo avevano già attraversato, partendo da paesi come il Sud Sudan, la Sierra Leone, il Camerun e molti altri dell’Africa nera. Ma ad aspettare centinaia di migranti, forse 700, giunti a Sfax, seconda città delle Tunisia e principale luogo di partenza per le coste italiane di Lampedusa, non era il mare ma nuovamente la sabbia. Secondo le frammentarie ricostruzioni dei media francesi, italiani (grazie al Manifesto) e alle pochissime testimonianze dei diretti interessati, infatti, nei giorni scorsi centinaia di persone sarebbero state letteralmente deportate dalla polizia locale da Sfax al deserto tunisino vicino al confine con la Libia, a qualche decina di chilometri dalle cittadine di Gafsa e Kasserine. Tra loro donne e bambini, abbandonati in un luogo sperduto, privo di ombra, dove temperatura massima nei giorni scorsi hanno toccato i 43 gradi.

Tutto sarebbe iniziato lo scorso 6 luglio, quando nel corso di alcuni disordini tra migranti e locali un tunisino di 41 anni è rimasto ferito a morte da una coltellata. Da lì, spiega la France Press, si è scatenata la furia degli abitanti di Sfax, che si sono detti stufi della presenza dei migranti in città. Ma l’episodio scatenato dalla morte del cittadino tunisino non è che l’ultimo di una serie di attacchi di matrice razzista – sottolinea la France Press – scoppiati dopo che a febbraio il presidente Kais Saied ha accusato “orde” di migranti privi di documenti di portare violenza e di aver presunto un “complotto criminale” per cambiare la composizione demografica del paese. Lo stesso Kais Saied con cui l’Italia sta firmando accordi di partenariato, dopo aver convinto anche l’Unione Europea. In questo video, ad esempio, si può vedere un gruppo di migranti costretti a rimanere sdraiati a terra e subire quella che probabilmente – si spera – è una finta esecuzione.

Questa volta però i circa 700 migranti (non è possibile però avere una conferma ufficiale del numero esatto), rivoltisi alla polizia per ottenere protezione, secondo le ricostruzioni di organizzazioni non governative e giornali francesi e italiani, sono stati per tutta risposta caricati in autobus e trasportati verso le aree del deserto tunisino: alcuni vicino al confine con la Libia e altri vicino alla frontiera con l’Algeria, paesi da dove entra in Tunisia la maggior parte de migranti che viaggia in direzione Sfax. Il resto sarebbe rimasta lettera morta, se alcuni dei 700 deportati non fossero riusciti a entrare in contatto con la stampa. “Non abbiamo niente da mangiare o da bere. Siamo nel deserto”, ha detto per esempio Kone all’Afp per telefono.

Ma anche il quotidiano italiano Il Manifesto  è riuscito a parlare con una deportata, ottenendo una testimonianza molto precisa: “Era il 3 luglio quando siamo stati aggrediti a colpi di pietre nella nostra abitazione poco fuori Sfax. Ci siamo spaventati molto, siamo rimasti chiusi in casa e abbiamo chiamato la polizia. Ci hanno detto di non avere paura, che ci avrebbero portato al sicuro. Ci siamo fidati di loro e siamo saliti su uno degli autobus. Dopo qualche ore eravamo 200 persone abbandonate nel deserto”.

Dopo giorni di silenzio e di assoluta mancanza di informazioni, finalmente l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha fatto sapere che, sulla base delle denunce della stampa, 158 persone sono state trasferite nella città tunisina di Tatajoune,

vero e proprio avamposto del deserto tunisino, e altri 353 sono attualmente ospiti di strutture pubbliche a Medenine, poco più a nord. Messo alle strette sulla vicenda dalle denunce della stampa internazionale e delle organizzazioni umanitarie, infatti, il presidente tunisino Kais Saied domenica ha ordinato alla Mezzaluna Rossa (l’equivalente musulmano della Croce Rossa) di portare aiuto ai migranti, ma ha negato che si siano verificati maltrattamenti a loro danno. Inoltre è tornato a ribadire come la Tunisia “sia in preda a un tentativo di destabilizzazione da parte dei trafficanti di esseri umani”. Rimane comunque, nella vicenda, un enorme punto interrogativo: se è vero che i migranti deportati erano 700 (ma anche questo è un dato difficilmente dimostrabile) e i migranti messi in salvo, da una semplice somma, risultano essere 511, che fine avrebbero fatto gli altri quasi 200 migranti?

Il vento razzista Saied e l’appoggio di Italia e Ue

Non è la prima volta che Saied, alle prese con la gravissima crisi finanziaria della Tunisia e con un calo drastico del proprio consenso personale culminato con delle grandi manifestazioni di piazza, scarica le responsabilità sui migranti, con conseguenze anche gravi, come raid punitivi e violenze perpetrati dagli stessi cittadini tunisini contro le persone provenienti dall’Africa subsahariana, soprattutto a Sfax. Ma è soprattutto quest’ultimo episodio a solleva importanti questioni sul trattamento dei migranti: numerose organizzazioni per i diritti umani hanno manifestato preoccupazione, sottolineando che l’abbandono di persone nel deserto costituisce una chiara violazione dei diritti umani fondamentali, compresa la protezione dalla tortura, dalla fame e dalla sete. Inoltre, la deportazione arbitraria e senza procedure appropriate ha sollevato questioni sulla conformità del governo tunisino alle norme internazionali sui diritti umani”.

Così il report di Lifegate. 

Nessuna voce si è levata dal governo italiano per esigere chiarimenti. Un silenzio che la dice tutta su chi governa oggi l’ex belpaese. 

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