Niger, Mali, Burkina Faso: la fuga dell'Occidente dal "Sahelistan"
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Niger, Mali, Burkina Faso: la fuga dell'Occidente dal "Sahelistan"

Il  presidente americano Joe Biden ha chiesto l'immediato rilascio del presidente del Niger,  Mohamed Bazoum, deposto da un golpe militare. Ma intanto...

Niger, Mali, Burkina Faso: la fuga dell'Occidente dal "Sahelistan"
Proteste anti-francesi nel Niger
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Agosto 2023 - 19.37


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Gli Stati Uniti in fuga dal Sahelistan. 

Non solo Nigeria

Il  presidente americano Joe Biden ha chiesto l’immediato rilascio del presidente del Niger,  Mohamed Bazoum, deposto da un golpe militare.

Lo ha reso noto la Casa Bianca in un comunicato, mentre il Dipartimento di Stato ha annunciato che ha ridotto il numero di persone nell’ambasciata Usa nel paese africano. A causa della situazione dopo il colpo di Stato “il Dipartimento di Stato ha ordinato la partenza dei dipendenti governativi non essenziali e delle loro famiglie dall’ambasciata”, si legge nella nota pubblicata sul sito web del dicastero.

  Da parte sua, la ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna, ha informato su Twitter che 992 persone, tra cui 560 francesi, sono state evacuate da Niamey a bordo dei voli speciali messi a disposizione dallo Stato francese. “Quattro voli partiti, 992 persone desiderose di lasciare il Paese trasportate, un quinto e ultimo volo programmato a fine giornata”, ha scritto Colonna, plaudendo al “grande lavoro” messo in campo dalle autorità transalpine.

 Il Foreign Office ha confermato che un primo gruppo di cittadini britannici ha lasciato il Niger su uno dei voli francesi per Parigi, senza indicare quanti connazionali sono stati evacuati ma precisando che un “numero molto piccolo” di sudditi di Sua Maestà rimane nel Paese africano. Secondo la Bbc, erano meno di cento i britannici in Niger quando è avvenuto il colpo di stato militare che ha deposto il presidente  Bazoum. Londra aveva consigliato ai connazionali di segnalare dove si trovavano e rimanere in casa.

   Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in un’intervista a Isoradio, ha precisato che “gli italiani rimasti in Niger sono una cinquantina –
oltre ai 400 militari che fanno parte di un contingente – e sono seguiti minuto per minuto dalla nostra ambasciata che rimane aperta: la nostra ambasciatrice è in Niger, vengono continuamente informati della situazione. Oggi in Niger sarà una giornata incandescente, è la festa dell’indipendenza dalla Francia, ci sarà un corteo fino all’ambasciata francese, ma l’Italia non è un Paese nei confronti del quale ci possano
essere degli atteggiamenti negativi. E’ festa, quindi la nostra ambasciata oggi resta chiusa. Per il governo la priorità è tutelare l’incolumità dei nostri cittadini. Seguiamo la situazione minuto per minuto perché  è in evoluzione”. 

   E infatti centinaia di persone si sono radunate a Niamey per manifestare a sostegno del golpe militare che ha rovesciato il presidente Bazoum nel giorno in cui si celebra l’indipendenza del paese dalla Francia. I manifestanti, alcuni dei quali sventolavano grandi bandiere russe, hanno iniziato a radunarsi nel centro della capitale, sulla Place de l’Indépendance, all’appello dell’M62, una coalizione di organizzazioni della società civile sovranista.

E nel frattempo  il Commissario per gli Affari politici e la sicurezza della  Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas), Abdel-Fatau Musah. ha avvertito la giunta golpista che  “l’opzione militare è l’ultima opzione sul tavolo, l’ultima risorsa, ma dobbiamo essere preparati a questa eventualità”.

Un duro colpo all’Occidente

Di grande interesse è un report di Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), tra i più autorevoli think tank italiani di geopolitica.

“Il colpo di stato militare in Niger è un duro colpo per l’Europa e l’Occidente. Se le speculazioni sulle ragioni che hanno favorito il putsch sono ancora oggetto di dibattito e di analisi, una cosa è certa: con Niamey cade l’ultimo baluardo della democrazia in una regione instabile in cui l’influenza della Russia e la presenza dei mercenari della Wagnerfa sempre più forte. “Il Niger è l’ultima tessera del domino a cadere” ha detto Cameron Hudson, ex funzionario della Cia intervistato dal Financial Times.  “La mappa ora sembra davvero sfavorevole agli interessi occidentali. La nostra intera posizione nella regione è in pericolo”, ha aggiunto Eppure le cose non sarebbero dovute andare così. Nel 2021, l’elezione alla presidenza di Mohamed Bazoum, ex insegnante di scuola, sancì la prima transizione democratica nel paese dall’indipendenza dalla Francia nel 1960. Bazoum succedeva a Mahamadou Issoufou, che a differenza di molti leader nella regione lasciò l’incarico al termine dei due mandati costituzionali. Mentre tutt’intorno le capitali del Sahel finivano una dopo l’altra sotto il controllo di governi militari, Niamey divenne agli occhi della Francia e dell’Europa, un alleato sicuro in una regione sempre più ostile. Un’alleanza che si è infranta questa settimana quando Abdourahmane Tchiani, capo della guardia presidenziale noto anche col nome di Omar, si è rivoltato contro l’uomo che era stato pagato per proteggere, e si è autoproclamato capo della giunta militare al potere.

L’Europa presa in contropiede?

Il golpe coglie di sorpresa e imbarazza i vertici di Bruxelles che a febbraio scorso avevano annunciato una missione di partenariato militare con l’esercito nigerino, destinatario di un sostegno finanziario di 40 milioni di euro. Inoltre Josep Borrell aveva incontrato Bazoum (e forse alcuni degli insorti) appena 23 giorni fa. Durante quel viaggio di due giorni nel paese l’Alto rappresentante Ue aveva salutato il Niger come “un paradiso di stabilità”. Invece, dopo che la giunta golpista aveva deposto il presidente democraticamente eletto, i sostenitori dei militari hanno manifestato inneggiando al presidente russo Vladimir Putin  e denunciato l’intenzione della Francia di voler restaurare Bazoum con un intervento militare. Il timore, a Parigi come a Bruxelles, è che si ripeta quanto accaduto in Mali e Burkina Faso, dove Mosca ha sfruttato un radicato sentimento anti-francese per estromettere gli europei e diventare un partner stabile delle giunte al potere. Una paura alimentata dalle parole pronunciate dal Capo di Wagner, Yevgeny Prigozhin, che ha definito il colpo di stato “una battaglia del popolo del Niger contro i suoi colonizzatori”. Anche se non c’è alcuna prova del fatto che Mosca o la Wagner abbiano avuto un ruolo nella cacciata di Bazoum, il caos presenta un’opportunità per il Cremlino in un’area sensibilissima dell’Africa e in un paese tra i maggiori produttori mondiali di uranio.

Il golpe in Niger non ha frustrato solo gli europei. I paesi membri della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), hanno sospeso le relazioni e chiuso le frontiere terrestri e aeree con il paese, minacciando l’intervento militare se Bazoum non sarà reinsediato al potere entro il 6 agosto. Un ultimatum che mostra un interventismo inedito da parte del blocco regionale, rimasto a guardare negli ultimi anni mentre le giunte soppiantavano governi civili nei paesi dell’area. Ma a distanza di poche ore la reazione dei governi in carica in Mali e Burkina Faso ha ulteriormente alzato la posta. Le giunte militari che hanno preso il potere nei due paesi hanno avvertito che un intervento dell’Ecowas in Niger “equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra” e potrebbe provocare una risposta militare da parte dei loro stati. Nel contempo, non mancano i tentativi di risoluzione diplomatica: nelle ultime ore il leader del Ciad, Mahamat Idriss Déby Itno, si è recato in missione per conto dell’Ecowas a Niamey dove ha incontrato Mohamed Bazoum e i militari golpisti. Déby Itno ha detto che il suo obiettivo è “esplorare tutte le strade per trovare un’uscita pacifica alla crisi”. Le prospettive però non sono incoraggianti: se il Niger seguisse la strada già tracciata da Bamako e Ouagadougou emergerebbero nuove grandi sfide per il resto dell’Africa occidentale, in particolare per gli stati costieri confinanti, nuovo pilastro della politica di sicurezza occidentale contro l’espansione jihadista.

Uranio: Mosca ci guadagna?

Se andrà in porto, il brusco cambio di leadership a Niamey potrebbe comportare effetti ben al di là dello scenario africano. Il paese è infatti il settimo produttore mondiale e rappresenta un quinto delle importazioni totali di uranio nell’Ue. Ebbene, la nuova giunta ha annunciato la sospensione delle esportazioni del prezioso minerale verso la Francia, di cui alimenta la massiccia industria nucleare civile. Il governo francese e gli esperti di energia si sono affrettati a sottolineare che le tensioni non avranno alcun impatto immediato sul fabbisogno della Francia poiché l’estrazione continua e le scorte esistenti potrebbero ancora coprire circa due anni. Ma alcuni analisti suggeriscono che l’impasse potrebbe avere un “effetto valanga”, costringendo i governi europei a riconsiderare ulteriori azioni punitive contro la Russia, tra i maggiori esportatori mondiali di uranio. “una sospensione delle importazioni da Niamey potrebbe avere conseguenze per tutta la Ue. “L’uranio – e l’energia nucleare in generale – non è ancora soggetto a sanzioni” ha detto a Politico Phuc-Vinh Nguyen, esperto di energia presso l’Istituto Jacques Delors di Parigi. “Se la situazione in Niger dovesse peggiorare, ciò complicherebbe sicuramente l’adozione di sanzioni sull’uranio russo a breve termine”.

Annota Giovanni Carbone, head of the Ispi Africa Programme: “ “Il golpe in Niger ha dato una scossa inattesa anche ai paesi della regione: i colpi di stato degli anni recenti in Africa occidentale sono diventati troppi, e troppo si è estesa anche l’insicurezza legata al jihadismo saheliano, che minaccia ormai sempre più da vicino gli stati costieri del Golfo di Guinea. I militari a Niamey sembrano dunque, nel varcarla, aver portato alla luce una linea rossa che prima era quantomeno poco visibile, forse inesistente. Questa volta le reazioni che il golpe ha generato potrebbero davvero costringerli a tornare nelle caserme”.

Si festeggia nel Sahelistan

Da incorniciare l’analisi, su La Stampa, di Domenico Quirico:

“C’è eccitazione, attesa fremente nel Sahelistan. Dall’Adrar des Ifoghas, sconfinato teatro dove gli unici ornamenti sono le pietre e i cespugli di quella coriacea, miseranda pianta che è il lentisco, alle piste dell’immenso Teneré, il deserto dei deserti, fino al Lago Ciad e ad Agadez accucciata sotto il suo minareto di sabbia vecchio di 500 anni, in tutti gli innumerevoli santuari del Jihad saheliano, da alcuni giorni si avverte il brivido delle ore decisive. Sì. I terroristi esultano. 

Ancora una volta Allah ha fatto il miracolo: gli occidentali e i loro servi apostati stanno per commettere l’ennesimo errore, intervenire nelle terre di Dio, aggredire il Niger per metter sulla sedia lo schiavo di Parigi, il traditore dei traditori, il ridicolo presidente Bazoum, appena dissellato dai golpisti. Non imparano davvero mai, i perversi. Solo dio poteva confondere così le menti di Macron e dei suoi accoliti. Negli accampamenti dei mujaheddin le preghiere sono più ferventi del solito, si scambiano le notizie che arrivano da Niamey: i colonialisti si agitano impauriti e furibondi, nessuno dà più loro retta, minacciano a vanvera, i nigerini assaltano l’ambasciata francese, non si parla più dell’Isis o di Al Qaeda come se fossero scomparsi, solo di Putin e della Wagner, il caos avanza a larghi passi. Il caos che è il braccio di dio: sia dunque lode a dio grande e misericordioso. 

Per i talebani d’Africa che hanno costruito il califfato del grande Sahara, sconfitto due scalcinate offensive francesi, e vogliono ripetere i fasti di Raqqa e di Mosul, nessun scenario poteva essere migliore. I bianchi, i crociati invadono un Paese musulmano che già li odia dal profondo, una grande guerra africana può scoppiare tra le giunte militari di Mali, Burkina Faso e Niger e gli alleati degli occidentali uniti nella Cedeao, con francesi, americani, italiani insabbiati nel Sahel. Ai “garibu”, i bambini che stanno all’uscita delle città per chiedere l’elemosina e sono gli occhi dei ribelli, è stato raccomandato di dar l’avviso subito quando compariranno i soldati stranieri. 

Negli accampamenti nelle zone “liberate” si preparano le armi. I droni francesi e americani, le nostre fallibili meraviglie, passano alti nel cielo e non vedono niente: solo macchie di arbusto, segni indecifrabili sulla sabbia, tombe semisepolte che coprono pietosamente la saggezza di qualche marabutto, e nel deserto di pietra frustato dal vento e dal sole solo un allucinato alternarsi di luce e ombre. Loro sono lì che aspettano l’annuncio. 

È il sogno dei jihadisti: gli occidentali che arrivano a Niamey per restaurare la loro democrazia, liberare il loro presidente, e, ovviamente, aiutare le popolazioni derelitte. Come assicurano da decenni. Neanche i più ottimisti potevano sperare in un altro Iraq sulle rive del Niger, nella ripetizione africana dell’Afghanistan. Non c’è stato bisogno di molta propaganda islamista per convincere questi sudditi della Francia per l’eternità che narrano loro bugie. E che gli occidentali sono qui per difendere i loro interessi, le miniere di uranio di Arlit, parcheggiare fuori vista i migranti, tener lontane la Russia e la cina, puntellare obbedienti regimi di ladri. Hanno paura della loro debolezza, hanno paura di perdere. 

Trovare reclute non è stato difficile, bisognava diventare una parte di questo mondo dei deserti, mimetizzarsi, far proprie le lotte locali, offrire denaro, preghiere e kalashnikov. Perché qui chi comanda non sono le città, comanda chi è padrone del deserto delle sue immensità, delle sue carovaniere, dei pozzi, dell’oro, dei traffici, dei suoi linguaggi. Solo per noi, ignoranti, il deserto è un esotico vuoto silenzioso. 

Mentre gli aiuti umanitari e per lo sviluppo finivano nei conti in banca dei nostri fedelissimi, ben occultate da ciance facili, predigerite senza bisogno di masticare ( la globalizzazione ha salvato milioni di persone…) il jihad ha predicato tra le popolazioni percosse dalla miseria e dalle prepotenze dei presidenti “democratici”: i Tuareg, le “peaux rouges”, i pellerossa come li chiamano con sprezzo sulle rive del Niger, e i pastori nomadi che ignorano le delizie dei confini insormontabili. 

I colpi di Stato militari sono stati una benedizione per il jihad: ora tutto è chiaro. Di qua i buoni musulmani, di là gli infedeli con i loro accoliti. Il minacciato intervento militare dei Paesi vicini che la Francia vuole utilizzare per africanizzare la guerra è un altro tassello favorevole. Degli eserciti dei «nostri amici d’Africa» non hanno certo paura. Togolesi, beninois, senegalesi, nigeriani son soldati fiacchi, dalle uniforme flosce come le portano i cattivi soldati. Preoccupano solo i ciadiani, come loro guerrieri del deserto; nella battaglia di Timbuctu contro Abu Zeid il Macellaio furono loro a vincere. 

Da un anno e mezzo, da quando “i crociati” si massacrano tra loro in Ucraina e coltivano il loro spinoso giardino, per il jihad africano sono tempi fausti. Il Burkina Faso è diventato il cuore del califfato, i militari stufi di essere mal pagati e usati come carne da macello hanno preso il potere, e così hanno perso l’aiuto occidentale, la creazione di milizie di autodifesa a base etnica ha scatenato un favorevole guerra parallela fatta di vendette, odi antichi, prepotenze. Le sciagurate sanzioni che ora colpiscono anche la popolazione del Niger moltiplicano le masse di disperati tra cui si possono distribuire kalashnikov e offrire possibilità di vendetta. 

La nostra “lotta al terrorismo”, che ha martoriato luoghi dove ogni vita è soltanto in prestito, in un mondo che non concede nascondigli, ha creato nel cuore dell’Africa un enorme spazio vuoto e disperato, off limits per noi, aperto a chi avrebbe saputo riempirlo. Le rotte della droga, delle armi, dei profeti dell’islam totalitario hanno continuato intanto ad attraversare il deserto. I sequestri sono diventati una industria, l’unica che rende. Nei caffè del Sahel ti elencavano le tariffe per gli stranieri: «Tu sei italiano, non vali niente come i locali, i francesi sono una miniera, li fanno pagare più degli americani perché li odiano di più…». 

I jihadisti, straordinari manipolatori di anime e di furori mitici, (il paradiso, la purezza, il martirio), hanno riempito quel vuoto, lo hanno modellato a loro immagine e somiglianza. La materia non è altro che energia compressa, un dito contiene tante piccole Hiroshima. I miti sono insiemi di energia compressa. Nel Sahel il mignolo attende il nostro ennesimo errore”.

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