Con Trump alla Casa Bianca un semplice viaggio negli Stati Uniti può costare la libertà
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Con Trump alla Casa Bianca un semplice viaggio negli Stati Uniti può costare la libertà

L’idea trumpiana di sicurezza nazionale trasforma ogni ingresso nel Paese in una potenziale minaccia.

Con Trump alla Casa Bianca un semplice viaggio negli Stati Uniti può costare la libertà
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8 Maggio 2025 - 17.03


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Quando Cliona Ward, cittadina irlandese con residenza legale negli Stati Uniti da decenni, è atterrata a San Francisco dopo aver visitato il padre malato in Irlanda, non immaginava che sarebbe finita dietro le sbarre per oltre due settimane. La donna, 54 anni, madre di un figlio statunitense con gravi problemi di salute, lavora in una ONG, paga le tasse e vive in California da quando era bambina. Ma una vecchia condanna per droga, risalente a quasi vent’anni fa e già espunta a livello statale, è bastata per farla rinchiudere in un centro di detenzione per immigrati a Tacoma, nello Stato di Washington.

La sua colpa? Aver viaggiato all’estero. La sua punizione? Aver creduto che il suo status legale e la sua fedina penale ripulita bastassero a proteggerla da un sistema sempre più spietato.

Ward è stata liberata solo dopo l’intervento di avvocati, parlamentari e del governo irlandese, e grazie a un giudice che ha riconosciuto la validità federale dell’espunzione delle sue condanne. Ma la sua storia è solo una delle tante che stanno emergendo in un’America tornata a costruire muri, non solo alle frontiere, ma anche negli aeroporti, nei consolati, nelle carceri amministrative.


Dopo la vittoria elettorale di Donald Trump nel 2024, il suo secondo mandato ha portato con sé il compimento ideologico e operativo di un progetto che era già iniziato nel 2016: ridefinire gli Stati Uniti come una fortezza. La promessa elettorale – “la più grande operazione di deportazione della storia americana” – non è rimasta una semplice provocazione da comizio. È diventata prassi governativa. E nel mirino non ci sono più soltanto gli immigrati privi di documenti: ora anche turisti, residenti legali e perfino cittadini naturalizzati possono ritrovarsi improvvisamente “sospetti”, detenuti o respinti.

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Negli ultimi mesi, i casi come quello di Cliona Ward si sono moltiplicati. Jasmine Mooney, cittadina canadese, è stata trattenuta per due settimane in celle gelide per una banale irregolarità nel visto di lavoro. Jessica Brösche, turista tedesca, ha passato più di sei settimane in custodia, di cui otto giorni in isolamento, perché sospettata – senza prove – di voler lavorare come tatuatrice senza permesso. La britannica Rebecca Burke, artista grafica, è stata detenuta per tre settimane a causa di un errore nel suo visto turistico, e ha poi dichiarato pubblicamente che sconsiglia chiunque dal recarsi oggi negli Stati Uniti.

Non sono episodi marginali. Secondo i dati del Dipartimento del Commercio americano, a marzo 2025 gli arrivi internazionali negli Usa sono diminuiti dell’11,6% rispetto all’anno precedente. Il calo più netto si registra proprio dall’Europa occidentale: -17,2%. Non è solo l’effetto di un dollaro forte o di voli costosi. È la paura concreta di finire prigionieri in un Paese che ha sostituito l’accoglienza con il sospetto, e il diritto con l’arbitrio.

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Questa non è più soltanto una politica migratoria: è una filosofia. L’idea trumpiana di sicurezza nazionale trasforma ogni ingresso nel Paese in una potenziale minaccia. Le frontiere non sono più varchi, ma trappole. In questo schema, l’individuo non è valutato per ciò che è oggi, ma per ciò che è stato – o per ciò che potrebbe essere, secondo l’occhio opaco di un sistema opprimente. Poco importa se si è residenti legali, turisti con visto regolare, o visitatori temporanei: basta un errore, una svista, una vecchia condanna o un algoritmo mal calibrato, e il soggiorno può trasformarsi in detenzione.

La criminalizzazione dei migranti e dei viaggiatori è ormai sistemica. Ed è sostenuta da una narrazione che presenta ogni deviazione burocratica come una minaccia alla sicurezza nazionale. È lo stesso meccanismo con cui, durante la prima presidenza Trump, si giustificavano il Muslim Ban o la separazione dei bambini dai genitori alle frontiere. Oggi, quella stessa logica viene applicata in silenzio, lontano dai riflettori, nelle celle degli aeroporti e nei centri ICE.

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Il caso Ward è emblematico, ma non eccezionale. È il riflesso di un Paese che ha scelto la paura come bussola politica. Dove le garanzie legali vacillano, e la presunzione di innocenza vale solo per i cittadini “giusti”. Dove anche chi ha costruito una vita nel rispetto delle regole può essere sbattuto in carcere per settimane, senza processo, senza accuse formali, senza neppure sapere quando – o se – verrà rilasciato.

Oggi viaggiare negli Stati Uniti è un atto di fiducia. Ma, per molti, è diventato anche un atto di rischio. Un Paese che una volta si presentava al mondo come la patria delle libertà civili, sta diventando uno spazio di frontiera permanente, dove i diritti sono condizionati dalla provenienza, dal passato, dal sospetto. E dove anche un cuscino abbracciato in una stanza finalmente propria, come ha fatto Cliona Ward appena rientrata a casa, può diventare un piccolo gesto di resistenza contro un sistema sempre più disumano.

Trump voleva “Make America Great Again”. Ma per chi arriva da fuori – o per chi ci vive senza essere perfettamente conforme al suo modello – l’America di oggi è soprattutto un luogo da cui è meglio guardarsi.

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