Riconoscere l’altro da sé – un individuo, una minoranza, un popolo – significa innanzitutto riconoscerne la storia, l’identità. Se si tratta di un popolo, l’identità nazionale. Qualcosa che ingloba ma non si riduce al riconoscimento della sovranità su dei territori. Un discorso che vale per il popolo palestinese.
Perché gli israeliani devono capire che per i palestinesi la Nakba è ancora in corso
Una riflessione ben sviluppata, su Haaretz, da Rana Salman, co-direttrice di Combatants for Peace, promotrice di una cerimonia congiunta per commemorare la Nakba palestinese.
Annota Salman: “Due settimane fa, ho camminato per le strade di Haifa, non da turista, ma da nipote di una famiglia palestinese che è stata cacciata dalla propria casa in città nel 1948. Sono cresciuta ascoltando storie su quella perdita: storie di una casa che sopravviveva solo nel ricordo della Nakba. Ma stavolta è stato diverso. Mentre la luce del sole calava sullo stesso porto che mio nonno descriveva con tanta nostalgia, ho avvertito qualcosa cambiare. Il passato non era più qualcosa di lontano. Era reale, presente e molto personale.
Dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, la guerra a Gaza ha provocato perdite inimmaginabili. In Cisgiordania, i campi profughi come Jenin e Tulkarm stanno affrontando nuove difficoltà. Per molti palestinesi, me compreso, il trauma del 1948 non è finito, è ancora vivido. Questo trauma plasma il modo in cui vediamo il presente, come viviamo e come soffriamo.
I miei nonni sono nati in questa terra, ma sono diventati anche rifugiati. Hanno trascorso la loro vita sognando una casa che sono stati costretti a lasciare. Mi chiedo spesso cosa abbiano provato in quei momenti. Avevano paura? Si sono sentiti cancellati quando hanno perso non solo la loro casa, ma anche il loro posto nella storia di questa terra? Cosa ha scelto di portare con sé mia nonna? Le sue creazioni? I suoi ricordi? Ha dovuto lasciare quasi tutto. Nessuno si è mai scusato. Nessuno ha mai riconosciuto ciò che le è stato portato via. C’è stato solo silenzio. E questo silenzio continua ancora oggi.
Nella società israeliana, la Nakba rimane un tabù perché mette in discussione la storia fondamentale in cui molti israeliani sono stati educati a credere, ovvero che la creazione dello Stato sia stata un atto di redenzione e sopravvivenza. Riconoscere la Nakba significa confrontarsi con il dolore e lo sfollamento dei palestinesi, una realtà che non si concilia con la narrativa nazionale israeliana. Questo silenzio è mantenuto da decenni di educazione, media e discorsi politici che emarginano o cancellano l’esperienza palestinese.
Per cambiare questa situazione, dobbiamo promuovere un cambiamento culturale che incoraggi l’empatia e la complessità. I sistemi educativi devono raccontare una storia più completa, i media devono dare voce ai palestinesi e il dibattito pubblico deve accettare l’idea che riconoscere la Nakba non è una minaccia, ma un passo verso la comprensione reciproca e un futuro più onesto.
Eppure, il silenzio continua. La Nakba, la catastrofe che nel 1948 ha causato lo sfollamento di oltre 700.000 palestinesi, è ancora un argomento tabù, soprattutto nella società israeliana. Viene negata, minimizzata o semplicemente ignorata. Ma per le famiglie come la mia, la Nakba non è solo storia, ma una realtà viva. E credo che parlarne non sia solo importante, ma necessario.
La Nakba non riguarda la colpa. Riguarda il riconoscimento.
Anche se parlare della Nakba non significa negare la versione israeliana, come molti pensano, introduce comunque una profonda tensione emotiva e morale. Ci ricorda che questa terra racchiude molte verità e molte vite. Riconoscere il dolore dei palestinesi non mette in discussione l’identità ebraica, ma ne esalta l’umanità comune. Dietro ogni storia, ogni titolo di giornale, ci sono persone e famiglie che cercano di dare un senso al dolore e alla nostalgia.
Ciò richiede anche che gli ebrei israeliani riconoscano non solo il proprio trauma storico, ma anche quello dei palestinesi, e che comprendano queste due verità come coesistenti e non contrapposte. Questo è profondamente difficile in una società in cui la memoria è spesso inquadrata in termini di zero-somma. La paura di fondo è che riconoscendo la sofferenza palestinese si possa dare l’impressione di sminuire quella ebraica o di mettere in discussione la legittimità dello Stato stesso. Ma è proprio questa paura che dobbiamo superare se vogliamo andare avanti.
Capisco che sia difficile. È scomodo. Ma il silenzio permette all’ingiustizia di continuare. Il disagio non può essere più importante della verità, della memoria e della dignità umana.
Ecco perché la cerimonia in memoria della Nakba, organizzata ogni anno da Combatants for Peace, ha un significato così profondo. È uno spazio dedicato al dolore, alla memoria e alla speranza. È un luogo in cui palestinesi, israeliani e alleati si riuniscono per affrontare il passato con onestà e immaginare un futuro basato sull’empatia e il riconoscimento reciproco.
Il tema di quest’anno, “Aggrapparsi alla casa, aggrapparsi alla speranza”, riflette direttamente l’urgenza di questo momento. Aggrapparsi alla casa è qualcosa che va oltre la geografia: è un impegno alla riconciliazione non solo tra gli individui, ma anche con la terra stessa.
È una visione di liberazione collettiva, in cui gli oppressi sono liberati dal dominio e anche gli oppressori sono liberati dai sistemi che li legano alla violenza. È un invito a tessere la pace nell’identità collettiva di tutti coloro che chiamano questo luogo casa.
La Nakba non è solo un evento storico. È una realtà che continua a essere vissuta oggi. I palestinesi continuano a subire lo sfollamento attraverso la demolizione delle case, il sequestro delle terre, la revoca della residenza e il rifiuto del diritto al ritorno. Sia nei territori occupati che all’interno di Israele, intere comunità subiscono discriminazioni e restrizioni sistematiche che ricordano il trauma originale del 1948. L’idea di una “Nakba in corso” può essere inquietante, soprattutto per il pubblico ebraico in Israele e all’estero, perché ci sposta dall’attenzione verso un passato doloroso a un presente ingiusto e ci chiede di fare di meglio, di metterci in discussione e di affrontare questi problemi a testa alta, adesso. Comprendere la continuità della Nakba è fondamentale se vogliamo spezzare questo ciclo tragico e violento.
Vi invitiamo a unirvi a noi in questo percorso. Non solo per ascoltare le nostre storie, ma per vederle davvero. Per testimoniare. Per aiutare a costruire un futuro in cui il dolore di nessuno venga ignorato e la storia di nessuno venga cancellata. Parlare della Nakba non significa vivere nel passato. Significa immaginare un futuro basato sulla giustizia, la compassione e l’umanità condivisa. Non può esserci vera pace con la negazione. E solo attraverso il riconoscimento può iniziare il processo di guarigione”.
Parole vissute, dense di ricordi, impastate con orgoglio, dignità, dolore e resilienza.
Un futuro cancellato
CosìEdouard Beigbeder, Direttore regionale dell’Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa: “Secondo le notizie, almeno 45 bambini sono stati uccisi nella Striscia di Gaza negli ultimi due giorni e questo è un altro devastante promemoria del fatto che i bambini di Gaza soffrono in maniera estrema, dovendo patire la fame giorno dopo giorno per poi essere vittime di attacchi indiscriminati.
Negli ultimi 19 mesi, Gaza è stata letale per i bambini e non ci sono spazi sicuri. Da nord a sud, i bambini sono stati uccisi e mutilati negli ospedali, nelle scuole trasformate in rifugi, in tende di fortuna o tra le braccia dei genitori. Solo negli ultimi due mesi, secondo le notizie, più di 950 bambini sono stati uccisi in attacchi nella Striscia di Gaza.
I bambini della Striscia di Gaza stanno affrontando bombardamenti incessanti e sono stati privati di beni essenziali, servizi e cure salvavita dall’inizio del conflitto. Negli ultimi due mesi, la situazione si è ulteriormente deteriorata a causa del blocco imposto agli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Le minacce alla vita dei bambini vanno oltre le bombe e i proiettili. Anche le condizioni di vita a cui i bambini sono sottoposti minacciano la loro stessa sopravvivenza. Ogni giorno che passa dall’inizio del blocco degli aiuti, i bambini devono affrontare il rischio crescente di carestia, malattie e morte.
I diritti dei bambini a Gaza vengono gravemente violati ogni giorno ed è necessaria un’azione urgente per proteggere i bambini da gravi e diffuse violazioni dei loro diritti e dalle minacce alla loro sopravvivenza. A diciannove mesi dall’inizio di questo conflitto, i bambini hanno subito violenze senza sosta, compresi attacchi indiscriminati. Hanno subito molteplici blocchi (di aiuti) durati mesi, che hanno negato loro cibo, acqua e forniture sanitarie essenziali. Hanno subito ripetuti sfollamenti, costretti a spostarsi ancora e ancora, in cerca di sicurezza e riparo. Hanno sofferto in modi inimmaginabili. Le loro cicatrici dureranno per tutta la vita.
L’Unicef esorta ancora una volta le parti in conflitto a porre fine alle violenze e gli Stati che esercitano un’influenza sulle parti in conflitto a usare la loro influenza e il loro potere per porre fine al conflitto. Il diritto internazionale umanitario deve essere rispettato da tutte le parti, consentendo l’immediata fornitura di aiuti umanitari, il rilascio di tutti gli ostaggi e la protezione dei civili dagli attacchi. Le sofferenze quotidiane e l’uccisione di bambini devono finire immediatamente”.
Ma il mondo sta a guardare. Una vergogna indelebile. Che richiama alla mente quanto scrisse Edward Said, il più grande intellettuale palestinese: “La nostra tragedia di palestinesi è essere vittime delle vittime”.
Vittime, aggiungiamo noi di Globalist, che oggi pretendono di essere considerate ancora tali anche si sono trasformate in carnefici.
Argomenti: Palestina