di Antonio Salvati
Certamente tutti i Paesi dell’area sono illiberali. C’è l’eccezione del piccolo Kuwait dove il Parlamento spesso si confronta con la casa reale, con il governo, ma se aumentano le contestazioni viene regolarmente sciolto.
Qualcuno, tra le eccezioni, inserisce anche la Turchia. Storicamente dal secondo dopoguerra è stata a volte una dittatura militare, poi una democrazia parlamentare, ora una democrazia presidenziale dai connotati indubbiamente molto autoritari. Non è un mistero che Erdogan ha rivinto le elezioni senza brogli eccessivi, come in altri Paesi mediorientali, ma il suo potere è molto forte a tutti i livelli della comunicazione e nei confronti dei giudici, delle forze di sicurezza, con l’utilizzo di metodi scorretti e del tutto illiberali con le opposizioni, soprattutto quella rappresentata dai curdi.
Torniamo ad Israele. Sotto l’aspetto non solo formale ma anche sostanziale Israele è una democrazia. Ha delle elezioni libere, non manipolate. Il sistema elettorale prevede una elezione senza grandi sbarramenti e senza maggioranze qualificate, un proporzionale che rende impossibile per un solo partito controllare il Paese. Lo attestano la storia delle ultime – e non poche – competizioni elettorali in cui le coalizioni vincitrici hanno governato e governano con maggioranze risicate. Pertanto, una piena democrazia.
Tuttavia, Israele si è spostato molto a destra negli ultimi anni. E Netanyahu non potrebbe governare senza l’apporto determinante dei parlamentari della Knesset legati a Itamar Ben-Gvir, “suprematista ebraico” e attuale ministro della Pubblica sicurezza e leader di Otzmaà Yehudit («Potere ebraico»), un movimento connotato da forti venature di razzismo, e a Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, che viene dalla svolta radicale verso un impianto fondamentalista del Partito nazionale religioso, forza politica che nella lunga storia di Israele ha sempre svolto un ruolo di ponte verso il governo in carica (anche nel tempo dei governi laburisti) e che a partire dagli anni ’70 ha avuto un processo di radicalizzazione, con l’appoggio del movimento radicale religioso dei coloni, ovvero il «Blocco dei fedeli» (in ebraico: Gush Emunim).
Dei 120 seggi complessivi della Knesset, su una maggioranza assoluta di 61 deputati, Potere ebraico di Ben Gvir ne ha 6, Sionismo Religioso di Smotrich ne ha 7. I loro voti sono stati fin qui cruciali a Netanyahu per governare con una maggioranza assoluta di poco più di 65 seggi. Un governo di minoranza è pur sempre una possibilità, ma rischia di essere un serio problema in una fase così delicata per Israele. Se di Ben Gvir il premier può fare a meno, con l’addio dei deputati di Smotrich la situazione si farebbe ben più complessa.
La questione dei coloni – che si trascina da molto tempo – e la mancanza di un adeguato e risolutivo approccio mina o rischia di minare definitivamente le credenziali democratiche dello Stato di Israele. Per meglio comprendere chi sono i coloni, ossia gli israeliani che vivono nei territori occupati, ci viene in soccorso il prezioso volume di Anna Momigliano Fondato sulla sabbia. Un viaggio nel futuro di Israele (Garzanti Milano 2025, pp. 176, € 18,00). Per territori occupati intendiamo soltanto la Cisgiordania, poiché da Gaza i coloni israeliani sono stati forzatamente espulsi.
I coloni vivono in città e villaggi costruiti appositamente da loro e per loro, spesso indicati come colonie o «insediamenti». Colonie – che possono variare molto fra loro, per dimensione e caratteristiche – caratterizzate dal fatto che sono costruite in una zona militarmente occupata, che è controllata da Israele ma non è formalmente annessa allo stato, in cui abitano anche milioni di palestinesi.
Come è assai noto, la quasi totalità dei coloni vivono nei territori occupati per motivi politico-religiosi. Si riconoscono nell’ebraismo nazional-religioso (datì leumì). Molti degli israeliani che si riconoscono nell’ebraismo datì leumì tendono ideologicamente a destra: non sono – precisa la Momigliano – soltanto nazional-religiosi, ma nazionalisti religiosi. Credono nello stato ebraico nella stessa maniera in cui ci credevano i padri fondatori socialisti. Ma la loro concezione di stato si basa anche, se non soprattutto, su un fondamento religioso: Israele, ai loro occhi, è la terra promessa della Bibbia, il territorio che Dio in persona ha assegnato ad Abramo, il patriarca del popolo di Israele.
E qui occorre ricordare che la terra promessa della Bibbia copriva un territorio assai più vasto di quello che attualmente ricopre lo stato moderno di Israele, perché includeva anche quelli che oggi sono i territori palestinesi occupati. Per i nazionalisti religiosi, tutta la terra promessa appartiene al popolo ebraico per diritto divino, non per un disegno politico. Non si pongono il problema dei rischi e delle conseguenze dell’occupazione della Cisgiordania, dell’impedimento a un altro popolo di avere un proprio stato e vivere liberamente e degli ostacoli al processo di pace (e quindi anche alla sicurezza di Israele).
Restare in Cisgiordania risponde a un disegno divino. Non tutti gli abitanti delle colonie, tuttavia, rientrano in questo profilo ideologico e religioso. Alcuni israeliani, pochi, si trasferiscono in Cisgiordania per altri motivi, semplicemente perché gli affitti sono più bassi. L’insediamento dei coloni in Cisgiordania risale al periodo successivo alla guerra dei Sei Giorni, nel 1967. Ma la presenza dei coloni ha conosciuto un’accelerazione a partire dagli anni Ottanta.
Peace Now – nota organizzazione pacifista israeliana – stima che nel 1977 c’erano meno di 5000 coloni. Nel 1993, quando è stato firmato il primo accordo di Oslo, erano già diventati 115.000. La presenza dei coloni nei fatti rappresenta la crisi degli accordi di pace, che prevedevano la nascita di uno stato palestinese, la famosa «soluzione dei due stati per due popoli». Dal 2009 tanti governi diversi, inclusi quelli che a parole sostenevano la soluzione dei due stati, hanno favorito la concessione di permessi per costruire nuove abitazioni nelle colonie. Mezzo milione di israeliani e poco meno di tre milioni di palestinesi, che non sono cittadini israeliani, vivono in un territorio occupato che non è mai stato formalmente annesso.
Sia gli israeliani sia i palestinesi nella West Bank si trovano, in misura diversa, sotto il controllo di Israele, perché l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) non è un vero e proprio stato, e dunque una parte del potere è amministrata da Israele, la potenza occupante.
La Cisgiordania è divisa in tre aree: nell’area B Israele gestisce la sicurezza, nell’area C ha il controllo totale, e persino nell’area A, dove in teoria l’ANP dovrebbe avere completa autonomia, l’esercito israeliano effettua retate e arresti. Per queste due popolazioni, però, non valgono le stesse leggi. Con i palestinesi residenti in Cisgiordania che hanno a che fare con la giustizia israeliana Israele applica la legge militare, secondo il principio di un’occupazione militare. Quanto ai coloni che risiedono nella West Bank, invece, per loro vale la legge israeliana, proprio come se si trovassero in territorio israeliano.
Un cittadino israeliano che commette un crimine in Cisgiordania sarà processato secondo il diritto israeliano, proprio come se l’avesse commesso a Tel Aviv. Paga le tasse, fa il servizio militare e vota alle elezioni esattamente come se fosse residente nei confini veri e propri del suo paese. Il fatto che gli israeliani possano votare in Cisgiordania rende bene l’idea di come questo territorio non sia propriamente trattato come «altro» rispetto a Israele, seppure non ne faccia parte. In altri termini, la West Bank non è dentro Israele, ma non è neppure fuori.
La Momigliano significativamente riporta le affermazioni di Liron Libman, ex colonnello dell’esercito israeliano ed esperto di legge militare: «Si è creata una situazione per cui i cittadini israeliani che risiedono nei territori (e che cioè, da un punto di vista legale, vivono in un’area esterna a Israele) sono trattati dal legislatore come se fossero residenti in Israele». E ancora: «Il metodo utilizzato è applicare alcune leggi, su base personale, agli israeliani, senza applicarle al territorio in sé, cosa che potrebbe essere in conflitto con il diritto internazionale».
Applicare due leggi diverse a due popolazioni che convivono nello stesso territorio e sotto il controllo dello stesso governo favorisce di fatto una situazione antidemocratica. Da qui il rischio chiaro e concreto di una deriva antidemocratica che non solo è un’ingiustizia per i palestinesi dei territori, ma ha implicazioni anche per gli israeliani che vivono in un paese nato con l’aspirazione di essere uno stato ebraico e democratico. Di fatto esistono non uno ma due Israele: da un lato, all’interno della Linea verde, un paese democratico, dove tutti gli abitanti godono dei benefici della cittadinanza e di uno stato di diritto, anche se una minoranza (quella araboisraeliana) subisce discriminazioni e nella pratica esistono doppi standard; dall’altro lato, un paese non democratico, cioè i territori palestinesi che di fatto Israele controlla, dove si applicano due leggi diverse a due popolazioni.
Per un israeliano, trovarsi a Tel Aviv o in Cisgiordania non fa praticamente alcuna differenza. Una situazione – ricorda la Momigliano – definita dall’autorevole rivista Foreign Affairs nel 2023 «One-State Reality», ossia non c’è più distinzione tra Israele e Cisgiordania, che un solo stato governa su entrambi i territori. Per Momigliano «se l’occupazione è ormai diventata un fatto permanente, se non esiste più una chiara distinzione tra Israele e i territori che occupa, allora non ha più senso pensare all’occupazione come a una questione esterna. Non si può più pensare che esistano due Israele – da un lato un paese democratico e dall’altro la realtà non democratica dell’occupazione militare».
La politologa Dahlia Scheindlin ha scandagliato a fondo questo fenomeno: «La non-democrazia dell’occupazione ha conseguenze non solo per coloro che la subiscono, ma anche per coloro che la impongono. Un singolo cittadino israeliano che gode di un sistema democratico ma si rende partecipe dell’occupazione, come soldato di leva, come burocrate o come figura politica, impara a mettere in atto prassi antidemocratiche, anche se non le subisce in prima persona».
Aggiunge: «Legittimare politiche che violano permanentemente la democrazia, trasformarle in routine, finisce per indebolire i valori della democrazia tra le persone che portano avanti l’occupazione». In altre parole: non puoi difendere la democrazia a casa tua mentre imponi un sistema antidemocratico agli altri, perché alla fine quel sistema diventa parte di te. A mezzo secolo di distanza, dunque, si è avverata la profezia dell’ex ministro israeliano Pinhas Sapir: «Se continuiamo a tenere in pugno i territori, prima o poi i territori terranno in pugno noi».
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