Ci sono immagini che, più di tante parole, raccontano una verità scomoda: la realtà quotidiana dell’occupazione israeliana. A Jenin, in Cisgiordania, una delegazione diplomatica composta da 25 rappresentanti di Paesi europei, arabi, asiatici e latinoamericani è stata accolta da colpi d’arma da fuoco sparati in aria da un’unità dell’IDF (Forze di difesa israeliane). Un gesto che ha provocato panico tra i diplomatici e che, sebbene non abbia causato feriti, segna un ulteriore, gravissimo scivolamento verso l’arbitrio.
Secondo quanto riferito dall’esercito israeliano, la delegazione si sarebbe “allontanata dal percorso previsto” entrando in una zona non autorizzata. Ma ciò che conta non è la geografia del tracciato, bensì il principio violato: nessuna forza armata può puntare un’arma — nemmeno in aria — contro rappresentanti ufficiali di Stati stranieri in missione diplomatica. Tanto più se quella missione, come ha confermato il ministero degli Esteri palestinese, aveva l’obiettivo di osservare e documentare la situazione umanitaria e le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati.
Le successive “scuse” dell’IDF non bastano. L’incidente di Jenin, infatti, non è un errore isolato, ma il sintomo evidente di un atteggiamento sistemico: quello di un esercito che agisce come se fosse il padrone assoluto di territori che invece occupa militarmente da decenni, in violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. A Gaza come in Cisgiordania, Israele si comporta non come uno Stato che rispetta le regole del consesso internazionale, ma come una potenza coloniale che impone con la forza la propria legge.
Che i militari israeliani ritengano legittimo sparare colpi di avvertimento alla presenza di ambasciatori stranieri la dice lunga sul clima di impunità in cui operano. È la stessa impunità che ha visto bombardamenti su scuole, ospedali, convogli umanitari e campi profughi; la stessa che ha giustificato arresti arbitrari, assedi, punizioni collettive e l’uccisione di migliaia di civili, tra cui donne e bambini. A questo punto, non ci si può più sorprendere se persino la diplomazia internazionale viene trattata come un’intrusione da reprimere con le armi.
L’episodio di Jenin ha un valore simbolico e politico devastante: dimostra che nella Cisgiordania occupata, come già a Gaza, non esistono spazi realmente protetti dal diritto. Non esiste una soglia che l’esercito israeliano non si senta autorizzato a superare. Ed è proprio questa l’essenza dell’occupazione: l’arbitrio elevato a norma, la violenza come strumento ordinario di controllo del territorio, il disprezzo sistematico per le regole condivise.
La comunità internazionale non può limitarsi a “prendere atto” dell’accaduto. La presenza di diplomatici stranieri serve, tra le altre cose, a testimoniare e documentare. Se anche questa funzione viene ridotta al silenzio dei proiettili sparati in aria, allora è il momento di porre domande molto più radicali: per quanto tempo ancora si permetterà a Israele di agire come se fosse al di sopra della legge? E chi pagherà il prezzo della complicità silenziosa?