Hanin Majadli ha la capacità di emozionare e al contempo far riflettere scrivendo delle tragedie di un popolo sotto occupazione. Lo fa per Haaretz, il baluardo sotto assedio dell’informazione indipendente in un Paese, Israele, dove un governo criminale ha disumanizzato le coscienze e militarizzato giornali e canali televisivi. Con sempre più rare eccezioni, in primis Haaretz.
Anche se smettessero di bombardare, la guerra non finirebbe
Così Majadli: “La settimana scorsa, nell’edizione ebraica del quotidiano, il giornalista di Haaretz Ofri Ilani ha scritto che vorrebbe che la questione della distruzione di Gaza fosse solo un doloroso problema storico.
“Vorrei che fosse la nostra realtà”, ha scritto. “Alcuni si chiedono: ‘Come affronteremo il senso di colpa?'”. È una domanda importante, ma ce n’è una ancora più rilevante: come fermare le uccisioni?”.
“Si può convivere con il senso di colpa”, ha continuato Ilani. Si può spiegare in modo più o meno convincente. Molte nazioni lo hanno fatto. Ma non si può vivere sotto i bombardamenti costanti: è semplicemente impossibile. Non si può vivere senza cibo né acqua”.
A prima vista, queste parole sembrano un appello urgente a fermare le uccisioni. Ma quando si va oltre la superficie, emerge la visione del mondo familiare e logora della sinistra sionista: si può convivere con le uccisioni dei palestinesi e con il senso di colpa. La vera domanda non è se sia morale, ma se sia accettabile.
E quando il senso di colpa diventa tollerabile, quando riusciamo a spiegare a noi stessi i crimini in modo più o meno convincente, perché non dovrebbero continuare a ripetersi? È proprio questa la logica che ha permesso alla sinistra sionista di portare a termine la Nakba nel 1948 e di convivervi – e con le sue conseguenze – in pace e prosperità.
Non è stata la destra a colonizzare le rovine dell’antica Sepphoris – l’odierna Moshav Tzippori – a emettere ordini di confisca in Galilea o a pianificare l’assedio di Lod e Ramla. Sono stati gli intellettuali – gli umanisti e i sostenitori dell’uguaglianza – che non hanno negato le proprie azioni, ma le hanno semplicemente etichettate in modo diverso, scrivendone e cercando di giustificarle in modo convincente.
È così che la tragedia di un gruppo è diventata la rinascita di un altro.
Quando Ilani scrive che “molte nazioni lo hanno fatto”, continua con lo stesso approccio: dipingere il crimine come un fatto spiacevole e inevitabile, che può essere spiegato, giustificato e interpretato. Non trasmette riconoscimento, ma insensibilità.
Ma questo non succederà con questo genocidio. La Nakba non è stata documentata, questo genocidio sì. Non c’è modo di tornare indietro da quello che sta succedendo. Forse Ilani lo sostiene perché sta cercando di placare una paura paralizzante.
Quello che sta succedendo a Gaza è un crimine contro l’umanità che non può essere giustificato. Ecco perché è impossibile fare un appello morale per fermarlo e, allo stesso tempo, dire che può essere giustificato “più o meno in modo convincente”, solo perché “molte nazioni lo hanno fatto”.
Il meccanismo che spinge all’uccisione si fermerà solo se le persone riusciranno a non giustificarlo, non solo nel mondo, ma anche dentro di sé. Dopotutto, la diplomazia pubblica israeliana è lo strumento che permette il proseguimento di questo massacro. Giustificazione e uccisione vanno di pari passo.
Finché la sinistra sionista si aggrappa a spiegazioni come “hanno iniziato loro”, “hanno rifiutato il piano di spartizione dell’ONU” o “hanno compiuto l’attacco del 7 ottobre”, invece di riconoscere le atrocità commesse, perpetua la stessa logica del 1948 che alimenta il ciclo di spargimenti di sangue.
Gli omicidi devono finire, ma deve cambiare anche il meccanismo cognitivo che li alimenta. Un riconoscimento sincero richiede non solo dolore, ma anche una profonda trasformazione interiore. Finché ciò non accadrà, anche interrompere i bombardamenti non porrà fine alla guerra, ma la metterà solo in pausa”.
Dopo quasi 600 giorni di guerra, anche i moderati israeliani stanno diventando estremisti
Altra voce libera è quella di Uri Misgav. Che non fa sconti a nessuno, e non trasforma un falco meno sanguinario ma pur sempre falco, in una colomba di pace.
Di chi si tratti Misgav lo spiega molto bene, sempre su Haaretz: “”E la terra si calma, l’occhio rosso del cielo si spegne lentamente. Sopra frontiere fumanti. mentre la nazione si alza, con il cuore spezzato ma ancora viva… per ricevere il suo miracolo. L’unico miracolo…
Yair Golan ha detto: «Hobby». Una frase sbagliata, una parola sbagliata, e il mondo sconvolto degli israeliani si è fermato di colpo. Che consenso, che unità.
Per un attimo, si poteva immaginare che ci si stesse dirigendo verso un governo di emergenza nazionale. Da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich a Benjamin Netanyahu e Arye Dery, con Avigdor Lieberman, Benny Gantz e Yair Lapid che si univano per condividere il peso.
Tutto questo sotto l’egida del presidente Isaac Herzog, ovviamente, con il sostegno ideologico di Im Tirtzu e The Shadow (Yoav Eliassi) e una miriade di commentatori, influencer, sedicenti esperti e personaggi dei media che concordano su una cosa e solo su una cosa: questo non deve passare.
Una parola grossa di Golan, dalla sua bocca ogni tanto esce qualche sciocchezza (che, per orgoglio, fatica a correggere). Eppure, una parola soltanto. Non un’azione, non un errore, non un abbandono del dovere, non la realtà.
La correzione necessaria: un paese sano non uccide i bambini, punto. Di certo non consapevolmente e per un lungo periodo, e non con questi numeri (si parla di 15.000-18.000 bambini uccisi a Gaza dall’inizio della guerra).
Ma Israele non è più un paese sano. Abbiamo normalizzato l’anormale. Abbiamo abbandonato gli ostaggi alla loro sofferenza e alla morte, sacrificato soldati sull’altare della conservazione del governo, una guerra difensiva giustificata che è diventata un’orgia di vendetta senza fine. La disumanizzazione.
E il discorso. Da un anno e mezzo, nei nostri studi radiofonici e televisivi, si svolgono discussioni colte sullo sterminio, sul trasferimento della popolazione, sulla creazione di uno spazio vitale libero dagli arabi, sull’idea che non esistono non combattenti e che ogni bambino della Striscia crescerà per diventare un terrorista.
A cosa sono serviti tutti i viaggi scolastici in Polonia e le visite a Yad Vashem se, alla fine, il gabinetto politico-di sicurezza dello Stato ebraico tiene una riunione (accesa!) sulla politica della fame, pardon, sugli “aiuti umanitari”?
Le principali argomentazioni contro questa politica sono di natura pratica: l’immagine è negativa e ci impedirà di raggiungere il nostro obiettivo supremo, ovvero la continuazione della guerra per l’eternità.
Tutto questo sta raggiungendo il suo apice nel mese in cui l’Occidente celebra l’80° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa. Accanto alle immagini della fame e dei bombardamenti quotidiani su ciò che resta della Striscia di Gaza, compresi i campi profughi.
Il mondo è inorridito da noi. Israele non ha mai ricevuto un trattamento così ostile e denigratorio. Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno rinunciato al governo di Netanyahu e hanno iniziato a stringere accordi con iraniani, sauditi, houthi, qatarioti, siriani e Hamas.
A Doha, nessuno parla più di un accordo per il rilascio degli ostaggi e da Khan Yunis giungono notizie delle terribili sofferenze dell’ostaggio Matan Zangauker. Soldati vengono uccisi in un fuoco incrociato o nel crollo di un edificio.
Nel frattempo, il primo ministro testimonia nel processo per corruzione riguardante alcuni articoli pubblicati sul sito web di notizie Walla e pubblica video ridicoli in cui “spiega” la politica e le azioni israeliane. E noi siamo tutti preoccupati per Golan, che ha detto “hobby”.
A volte mi sento come Bill Murray in Ricomincio da capo, intrappolato in un loop temporale e svegliandomi ogni mattina nello stesso giorno. Sono quasi sicuro di aver visto mercoledì in televisione il filmato del capo di stato maggiore dell’IDF Eyal Zamir, con un fucile e una tracolla, al confine con Gaza, mentre teneva il discorso del comandante in preparazione alla battaglia dopo l’invasione di Hamas, come se fosse l’8 ottobre.
Sono quasi 600 giorni che parliamo dei crimini di Hamas, della sconfitta di Hamas, del ritorno dei nostri ostaggi, della pressione militare, della vittoria totale, della vittoria finale, di un passo dalla vittoria, dell’alta intensità e di una manovra massiccia.
Questa settimana, lo Stato Maggiore, orientato all’offensiva, ha iniziato a inculcare nelle menti dei corrispondenti militari un nuovo termine: “mega-manovra”. Ho la sensazione che questa volta sia quella buona. E se così non fosse, ricordate Yair Golan. È lui il capo. È lui il responsabile”, conclude Misgav.
Triste verità, ma pur sempre verità.
Uccidere migliaia di persone a Gaza non è autodifesa, è una crisi di identità
Illuminante è la riflessione di Carolina Landsmann. Che su Haaretz annota: “È semplicemente al di là delle nostre capacità di comprensione. Lo Stato di Israele è intrappolato in un’argomentazione, per non dire una tiritera talmudica, di autodifesa. Come se l’autodifesa consistesse in qualsiasi atto, compresa l’uccisione di oltre 16.000 bambini, l’affamamento dei residenti e il trasferimento forzato di tutti i gazawi come condizione (!) per porre fine alla guerra, che non si è mai verificata.
Tutto questo non deriva solo dall’espansione del termine “difesa”, ma anche dal mantenimento di una percezione distorta di sé.
L’io israeliano, che negli ultimi anni si è ritirato nell’io ebraico, non conosce limiti. Quindi, agli occhi dell’israeliano medio nella sua reincarnazione “ebraica”, l’autodifesa è un atto senza confini. Questa assenza di confini non riguarda solo la sfera militare o strategica, ma è una questione di identità.
Ad esempio, molti israeliani danno per scontato che un attacco terroristico a Washington contro un rappresentante israeliano sia “antisemita”. Ma cosa significa esattamente “antisemita”?
Ovviamente, si tratta di un atto antisraeliano e propalestinese. Ma cosa lo rende antisemita? La risposta è una sola: la totale mancanza di distinzione tra ebreo e israeliano.
Questo non nega l’esistenza dell’antisemitismo. Tuttavia, questo attacco avrebbe dovuto innanzitutto suscitare un’analisi politica.
Un tentativo di spiegarlo nel contesto in cui Israele è oggetto di aspre critiche a causa di una guerra in cui sono state uccise più di 50.000 persone e un’intera area è stata ridotta in polvere sotto una leadership che dichiara apertamente l’intenzione di sfrattare tutti i suoi residenti.
Questo è un esempio patologico di quell’io sconfinato. Quando l’identità ebraica e quella israeliana si fondono in un’unica entità amorfa, ogni critica a Israele viene considerata antisemitismo e ogni azione di Israele viene definita autodifesa.
Non c’è confine, non c’è differenza, non c’è distinzione tra stato e religione, soldato e civile, sovranità e mentalità di una minoranza perseguitata, anche quando questa possiede, secondo fonti straniere, uno stato e una bomba atomica.
Ogni genitore, ogni partner, ogni amico e ogni psicologo che ha in cura un paziente con un’identità distorta sa che l’unico modo per porre un confine all’io sconfinato è dall’esterno.
Non ha senso sperare in una convergenza spontanea dell’identità ebraica all’interno dei suoi confini. Questo è ancora più vero dopo il 7 ottobre, che ha scardinato non solo i confini fisici, ma anche quelli mentali.
Il movimento internazionale per il riconoscimento di uno Stato palestinese, che si sta consolidando in questi giorni, non è quindi solo un’esigenza politica o morale, ma una necessità esistenziale e psicologica per lo Stato di Israele.
È come tendere una mano diplomatica e terapeutica a una nazione che si sta ritirando nella sua condizione di pre-sovranità e che traduce la sovranità in un fuoco sfrenato, mentre è presa dall’illusione di annientare totalmente il nemico e di espandersi fisicamente e autonomamente fino a Dio sa dove.
Gli Stati europei devono attenersi alla linea che hanno intrapreso. Il mondo intero, guidato dagli Stati Uniti, deve unirsi e prendere una decisione per noi.
Netanyahu non ha “paura” di decidere, semplicemente non ne è capace. Non per ragioni tattiche o politiche, ma per un profondo senso primordiale di rispetto. È l’incarnazione della mancanza di capacità di essere sovrani.
Il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese con dei confini renderà chiaro agli ebrei di Israele che il mondo non aspira a cancellare lo Stato ebraico, ma a fondare accanto ad esso un altro Stato. Uno stato palestinese accanto a Israele, non al suo posto.
È importante sottolineare, a titolo di parentesi, che anche i palestinesi stanno sviluppando sintomi simili a quelli del padre oppressore a causa della vita sotto lo stivale sionista.
Anche loro si aggrappano alla falsa speranza di una vita senza confini, di un ritorno completo, di una confusione tra stato e identità.
Il riconoscimento di una chiara sovranità palestinese, con tanto di confini, permetterà anche a loro di fare una mossa realistica e di rinunciare a speranze che non li porteranno da nessuna parte. Israele e Palestina: due Stati per due Nazioni. Con confini. Ora”.
Così Landsmann. Sì, se non ora, quando?