Gideon Levy è un grande giornalista. Ma questo è noto da tempo. Gideon Levy è coscienza critica d’Israele e di questi tempi vuol dire molto, moltissimo. Perché vuol dire andare controcorrente alla narrazione dominante. Significa affermare verità scomode. E non illudersi e illudere che basta cambiare un uomo malvagio al potere perché i buoni sentimenti e una buona politica tornino a influenzare i destini di un Paese e del suo popolo.
E non c’è una sola persona giusta a Sodoma.
Scrive Levy su Haaretz: “In Israele non sono pochi i politici e i personaggi pubblici che chiedono di porre fine alla guerra. Ci sono molte persone che si battono con coraggio per il rilascio degli ostaggi. Ci sono molte altre persone che desiderano vedere l’attuale governo destituito. Ci sono persone che temono per la posizione internazionale di Israele, che rischia di diventare uno stato paria. Molti si preoccupano anche delle conseguenze dell’isolamento di Israele e dei suoi costi economici e sociali.
E non c’è una sola persona giusta a Sodoma. Pochi esprimono pubblicamente preoccupazione non solo per la reputazione e la moralità di Israele, ma anche e soprattutto per il destino degli abitanti di Gaza.
Non c’è personaggio pubblico israeliano il cui sonno sia disturbato dai bambini che urlano di terrore e dolore negli ospedali, dagli anziani trascinati da un posto all’altro su carri trainati da asini e dall’eliminazione di intere famiglie, una dopo l’altra.
Il dolore di Gaza è un rumore secondario nella conversazione pubblica, un rumore di fondo in un dibattito completamente diverso. Anche i migliori di noi si preoccupano solo delle implicazioni della guerra per Israele.
La voce umana è assente; l’umanesimo è morto. È completamente assente dalla politica; la maggior parte degli intellettuali è rimasta in silenzio e i media non ne fanno cenno. Non c’è un solo Yeshayahu Leibowitz, Janusz Korczak o Bertrand Russell che gridi: “Questo deve finire, a qualunque costo, per quello che ha passato Gaza”. Tutta la società israeliana non ha l’umanità di base per essere scossa dalla sofferenza delle vittime peggiori.
Lo shock umano per quanto accaduto il 7 ottobre non è stato sostituito da un analogo shock per le azioni di Israele a Gaza. Perché? Perché noi siamo ebrei e loro no? La gentilezza umana non può oltrepassare i confini e ignorare le affinità nazionali di fronte alla distruzione? “Per favore, non disturbate, siamo ancora il 7 ottobre”.
Ma da allora abbiamo vissuto mille 7 ottobre, che non sono riusciti a toccare il cuore degli israeliani. I media traditori aiutano le persone a non vedere gli orrori. Ma anche senza i media, si può sapere che in quel paese si sta verificando un disastro orribile a causa del nostro lavoro.
Qui non si sentono proteste contro questo fenomeno. Le cause sono molteplici, ma non c’è alcuna giustificazione. È ovvio che le persone si preoccupano di più dei propri cittadini e che ogni nazione si prende cura prima di tutto del proprio popolo. Ma questo? Fino a che punto? Qualche giorno fa, quando ho mostrato a un parente un orribile video da Gaza, mi ha chiesto meccanicamente: “Sei sicuro che non sia stato falsificato?”. Niente incrinerà il muro protettivo che gli israeliani si sono costruiti intorno. A Gaza non c’è niente che evochi un senso di colpa. Non c’è nemmeno il tipo di protesta che per anni ha scosso gli Stati Uniti, quella contro la guerra del Vietnam. Non c’è nessun Eugene McCarthy che si candida con una piattaforma contro la guerra.
Prendiamo ad esempio l’esemplare articolo di opinione in ebraico di Orna Rinat di giovedì scorso, forse il pezzo più inquietante pubblicato in Israele sulla guerra. Ha fatto scalpore? Chi sarà il leader che salirà sul podio per affermare che la priorità è mettere fine alle sofferenze dei gazawi e al diavolo tutte le altre dotte considerazioni?
L’ex Primo ministro Ehud Barak, uno dei leader del movimento di protesta, ha scritto giovedì un altro saggio pungente per chiedere la fine della guerra. L’ho letto due volte. Non c’è un accenno di compassione o di empatia umana per la Striscia. L’ultima cosa che interessa a Barak è la sofferenza di quel luogo. Ha numerose spiegazioni sul perché la guerra debba essere fermata. Fa persino riferimento alla necessità di “aiuti umanitari”, soprattutto per placare il mondo. Ma dov’è la protesta contro la distruzione?
L’articolo dell’ex Primo ministro Ehud Olmert, pubblicato sullo stesso numero, era più coraggioso e più umano. Nell’era dell’apartheid in Sudafrica, gli ebrei bianchi si arruolarono a fianco dei neri nella lotta contro l’apartheid. Rimasero feriti, vennero imprigionati per anni e persino uccisi. In Israele non c’è nemmeno qualcuno che esprima il dolore delle vittime.
La guerra deve cessare prima di tutto perché è una guerra di distruzione che causa sofferenze disumane alla popolazione di Gaza. In Israele non c’è nessuno che lo dica con queste parole”, conclude Levy.
È così.
Problema di pubblic relation, non di umanità
La disumanizzazione come senso comune. Coì ne scrive Rogel Alpher sul quotidiano progressista di Tel Aviv: “La tragica situazione alimentare a Gaza è un problema di pubbliche relazioni. Secondo i corrispondenti e gli opinionisti di Channel 14, la vera vergogna è che i gazawi non possono essere semplicemente lasciati morire di fame, in modo che i media internazionali non pubblichino immagini che potrebbero fare pressione su Israele per porre fine alla guerra.
In questo scenario, l’intera popolazione di Gaza potrebbe morire di fame in silenzio, senza la necessità di aiuti umanitari. Secondo loro, si tratterebbe di una soluzione elegante: la popolazione potrebbe morire di fame in silenzio, si risparmierebbe a Israele lo sforzo pluriennale di istituire un’amministrazione dell’immigrazione per svuotare gradualmente la Striscia di Gaza dai suoi residenti e non ci sarebbero più le immagini che potrebbero fare pressione su Israele per porre fine alla guerra. L’opinione pubblica israeliana ha completamente disumanizzato gli abitanti di Gaza. E una volta che non sono più considerati umani, morire di fame diventa moralmente lecito.
Ecco come il corrispondente politico Moti Kastel ha commentato le implicazioni del non permettere a nove camion di latte artificiale di entrare a Gaza: “Ci ritroveremo poi di fronte a un fenomeno che non vogliamo vedere, almeno non dal punto di vista della comunità internazionale, di immagini di bambini che muoiono di fame e simili”.
Il suo tono è quello di chi sottolinea l’ovvio, il banale. Il vero problema non sono i “bambini che muoiono di fame e simili”, ma le immagini di questi bambini che muoiono. Le immagini sono pericolose, non le morti. È la visibilità che potrebbe fermare la guerra, non l’atto di affamare i bambini.
Guy Levi, portavoce del Likud, ha affermato: “Basta un’immagine di un piccolo luogo dove ci sono 5.000 bambini affamati con la pelle appiccicata alle ossa e la guerra potrebbe finire domani. Non hanno nemmeno bisogno di morire”.
Anche in questo caso, il problema non è che 5.000 bambini muoiano di fame – e nemmeno che muoiano – anzi, lasciamoli morire. Basta una foto di loro ancora vivi per porre fine ai combattimenti.
Il corrispondente politico Tamir Morag ha aggiunto il suo contributo: “Per mantenere la popolazione di Gaza al di sopra della soglia di malnutrizione, in modo da non avere immagini di gazesi che muoiono di fame, che provocherebbero una pressione internazionale che porterebbe alla fine della guerra”.
La chiave è evitare le “attrazioni”. Quindi, l’obiettivo diventa tecnico: mantenere i gazesi appena “sopra la soglia della malnutrizione”. È un peccato che non si possa creare una “zona umanitaria esemplare” per ingannare i funzionari della Croce Rossa in visita e nascondere l’operazione di far morire di fame i gazawi. Anche in questa zona esemplare, non si dovrebbe permettere a un solo gazawo di superare la “soglia della malnutrizione”. Perché sprecare risorse, dopo tutto, quando molte di queste persone moriranno nei bombardamenti, come danni collaterali?
Eppure, l’avvocato Iska Bina non è d’accordo. Ha sostenuto che Hamas continuerà a diffondere immagini di bambini affamati anche se Israele fornirà gli aiuti necessari. La sua conclusione è stata: continuate pure a farli morire di fame!
E così è andato avanti il dibattito sulla televisione nazionale, incentrato sulle difficoltà di far morire di fame milioni di persone al giorno d’oggi. Senza dubbio, un tempo la vita di chi affama le popolazioni era più facile. Se solo il pubblico israeliano potesse godersi indisturbato “l’immagine di un piccolo posto dove ci sono 5.000 bambini affamati con la pelle aggrappata alle ossa”, senza doversi preoccupare costantemente di ciò che il mondo – quell’entità fastidiosa – potrebbe dire”
Mentre gli occhi sono puntati su Gaza, i coloni espellono i palestinesi dalla Cisgiordania
Globalist ha resocontato con articoli, interviste, report, analisi delle più prestigiose firme del giornalismo israeliano, il regime di apartheid instaurato da Israele nella Cisgiordania da Israele. E con altrettanta puntigliosità, abbiamo documentato, col supporto delle più autorevoli Ong che si occupano di diritti umani – da Amnesty International all’israeliana B’Tselem – la violenza quotidiana, e impunta, dei coloni israeliani contro villaggi palestinesi messi a ferro e fuoco.
L’allarme viene rilanciato in un editoriale di Haaretz: “La guerra a Gaza, l’attenzione dell’opinione pubblica sugli ostaggi e il loro abbandono, i dibattiti burrascosi a favore e contro il trasferimento della popolazione e la morte per fame deliberata, nonché la domanda su quante decine di migliaia di persone – compresi i bambini – debbano morire perché Israele sia sconvolto dalle sue azioni: Tutto questo, più la politica interna in fermento, crea le condizioni ideali per l’espulsione silenziosa e sistematica dei palestinesi dall’Area C della Cisgiordania, sotto il controllo esclusivo di Israele.
Dopo l’inizio della guerra, i coloni hanno sviluppato un nuovo metodo per sfollare le comunità palestinesi: stabiliscono avamposti di insediamento adiacenti alle loro comunità e iniziano immediatamente ad aggredire i residenti, a rubare il loro bestiame e a limitare i loro movimenti.
In assenza di forze dell’ordine, le vite, le case e le proprietà dei palestinesi sono a rischio. Si rendono subito conto che l’unico modo per proteggere se stessi e i propri beni è andarsene.
Secondo i dati di Kerem Navot, un’organizzazione no-profit israeliana che monitora l’utilizzo del territorio in Cisgiordania, dall’inizio della guerra circa 60 comunità palestinesi sono state espulse dall’Area C.
L’ultima vittima di questo metodo è il villaggio beduino di Ramallah al-Mughayyir. I suoi abitanti vivono lì da circa 40 anni, ma i coloni hanno impiegato meno di una settimana per espellerli.
Erano sottoposti a vessazioni da due anni, ma l’avamposto creato la scorsa settimana ha dato il via a un’escalation drammatica che ha portato alle loro espulsioni.
In questo caso, non c’è stato bisogno di un attacco violento: era sufficiente una minaccia, perché i residenti sapevano bene cosa era successo ad altri villaggi che non avevano ascoltato le minacce.
Il nuovo avamposto si trova a meno di 100 metri da una delle case del villaggio. L’Idf e l’Amministrazione Civile non hanno agito per rimuovere l’avamposto o per proteggere i residenti palestinesi, che sono fuggiti dalle loro case per paura. Si tratta di un’espulsione silenziosa, sotto lo sguardo attento ma silenzioso dello Stato e dei militari.
I “giovani delle colline” non agiscono da soli. L’impresa di insediamento è un apparato terrificante che ha il potere non solo di costruire avamposti ed espellere comunità, ma anche di eleggere rappresentanti alla Knesset e di inserirli nel gabinetto.
Il parlamentare Tzvi Succot è già stato avvistato nel nuovo avamposto. In una petizione presentata all’Alta Corte di Giustizia è stato chiesto un provvedimento temporaneo: spostare l’avamposto a 3 chilometri dal villaggio ed effettuare pattugliamenti regolari.
Inoltre, è stato chiesto allo Stato di spiegare perché non ha agito per impedire l’espulsione. Il giudice Yosef Elron si è pronunciato contro le misure temporanee richieste e ha dato allo Stato tempo fino al 29 maggio per rispondere. Il tribunale, quindi, si schiera a favore dell’abbandono dei palestinesi.
La potenza occupante ha l’obbligo di proteggere le persone sotto occupazione. L’esercito e l’amministrazione civile devono agire immediatamente per rimuovere i coloni, proteggere i palestinesi e prevenire la prossima espulsione.
In assenza di un’azione in tal senso, è evidente che l’establishment israeliano è parte in causa nell’espulsione. Israele non può più ignorare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale e dagli accordi di cui è firmatario”, conclude Haaretz.
Giusto. Solo che Israele quegli obblighi continua a sviarli. Senza incorrere in una qualsivoglia sanzione. Il mondo ha dato a Israele licenza di uccidere e di occupare.
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