Un resoconto straziante pubblicato dal The Guardian il 4 giugno 2025, a firma di Lorenzo Tondo, Malak A. Tantesh e Julian Borger, getta luce su un episodio di estrema violenza avvenuto il 23 marzo 2025 a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove 15 operatori umanitari, tra cui otto paramedici della Palestinian Red Crescent Society (PRCS), sei membri della difesa civile di Gaza e un dipendente delle Nazioni Unite, sono stati uccisi da forze israeliane. L’articolo, basato sul racconto del paramedico sopravvissuto Asaad al-Nasasra, descrive un attacco che, secondo la PRCS e altre organizzazioni umanitarie, potrebbe costituire un crimine di guerra. Le testimonianze, corroborate da video, audio e immagini satellitari, contraddicono le versioni iniziali fornite dall’esercito israeliano (IDF) e sollevano gravi interrogativi sulla protezione degli operatori umanitari in zone di conflitto.
Il racconto di Asaad al-Nasasra: un sopravvissuto tra l’orrore
Asaad al-Nasasra, un paramedico di 47 anni con 16 anni di esperienza presso la PRCS, è uno dei due sopravvissuti all’attacco del 23 marzo 2025. Dopo essere stato ferito e detenuto per 37 giorni dalle forze israeliane, al-Nasasra ha fornito un resoconto dettagliato alla PRCS, che lo ha condiviso con il The Guardian. Secondo il paramedico, l’attacco è iniziato quando un convoglio di veicoli di emergenza, composto da ambulanze chiaramente contrassegnate, un camion dei pompieri e un veicolo delle Nazioni Unite, è stato inviato a Rafah per recuperare i corpi di due paramedici e altre vittime di un precedente attacco aereo israeliano. “Alcuni dei paramedici sono sopravvissuti all’assalto iniziale e stavano chiamando aiuto quando sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco”, ha riferito al-Nasasra, secondo quanto riportato dalla PRCS.
Il paramedico ha descritto momenti di terrore assoluto: dopo l’attacco iniziale, è stato “detenuto e torturato per 37 giorni” dalle forze israeliane. Durante la sua detenzione, bendato, ha intravisto attraverso il tessuto i veicoli distrutti del convoglio, ma non i corpi dei suoi colleghi. Al-Nasasra ha raccontato di aver creduto di essere sul punto di essere ucciso quando i soldati israeliani lo hanno costretto a spogliarsi e lo hanno gettato in un fossato. “Ha detto ai soldati: ‘Non sparate. Sono israeliano’”, ha riportato la PRCS, spiegando che la madre di al-Nasasra era una cittadina palestinese di Israele. Questa dichiarazione, secondo la portavoce della PRCS Nebal Farsakh, ha confuso i soldati, che alla fine hanno deciso di risparmiarlo.
Le prove video e le contraddizioni dell’IDF
Un video di quasi sette minuti, recuperato dal telefono di Rifat Radwan, uno dei paramedici uccisi, ha smentito le affermazioni iniziali dell’IDF, secondo cui i veicoli del convoglio si stavano “muovendo in modo sospetto” senza fari o segnali di emergenza. Il filmato, pubblicato dalla PRCS, mostra chiaramente un camion dei pompieri rosso e ambulanze con luci di emergenza lampeggianti che si muovono di notte. “Il video mostra che non si è trattato di un incidente casuale né di un errore individuale, ma di una serie di attacchi deliberati”, ha dichiarato la PRCS, definendo l’episodio un “crimine di guerra a tutti gli effetti”.
Nel video, si sente Radwan parlare con al-Nasasra mentre guidano su una strada non illuminata. Quando il convoglio si ferma accanto a un veicolo fermo, si odono spari improvvisi, seguiti dalle ultime preghiere di Radwan: “Perdonami, mamma. Volevo solo aiutare le persone. Volevo salvare vite”, ha detto il paramedico prima di essere ucciso. Le voci di soldati israeliani che si avvicinano ai veicoli sono chiaramente udibili, insieme a ordini in ebraico come: “Raccoglili vicino al muro e porta delle fascette per legarli”.
L’IDF ha inizialmente negato le accuse, ma un’indagine interna ha successivamente ammesso una serie di “errori operativi” e una “violazione degli ordini”. Un ufficiale militare israeliano, parlando in anonimato, ha dichiarato che il racconto iniziale era “sbagliato” e che i veicoli avevano effettivamente i fari e le luci di emergenza accese. Tuttavia, l’IDF ha continuato a sostenere, senza fornire prove, che sei dei 15 uccisi fossero “militanti di Hamas”. Questa affermazione è stata categoricamente respinta da Jonathan Whittall, capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) nei territori palestinesi occupati, che ha dichiarato: “Questi sono equipaggi di paramedici che ho incontrato personalmente in precedenza. Sono stati sepolti con le loro uniformi, con i guanti ancora indosso”.
La scoperta della fossa comune e le accuse di esecuzione
Una settimana dopo l’attacco, il 30 marzo 2025, una missione congiunta della PRCS e dell’OCHA ha recuperato i corpi di 15 operatori umanitari da una fossa comune poco profonda a Rafah. Le immagini satellitari e le foto scattate sul posto mostrano veicoli di emergenza schiacciati e sepolti sotto la sabbia, apparentemente da bulldozer militari israeliani. “Le loro ambulanze sono state sepolte nella sabbia. C’è un veicolo delle Nazioni Unite qui… un bulldozer delle forze israeliane le ha sepolte”, ha dichiarato Whittall in un video dal luogo dell’attacco.
Due testimoni hanno riferito al The Guardian che alcuni dei corpi recuperati avevano mani o piedi legati, suggerendo che fossero stati uccisi dopo essere stati immobilizzati. Il dottor Ahmed al-Farra, un medico senior del Nasser Medical Complex di Khan Younis, che ha assistito all’arrivo dei corpi, ha dichiarato che gli uomini sembravano essere stati “esecuti” a causa delle ferite da arma da fuoco alla testa e al torace. Il dottor Bashar Murad, direttore dei programmi sanitari della PRCS, ha aggiunto che durante una chiamata tra un paramedico e il centro di ambulanze, si potevano udire spari a distanza ravvicinata e le voci di soldati israeliani che ordinavano di legare i sopravvissuti. “Gli spari sono stati effettuati da una distanza ravvicinata. Le voci dei soldati erano chiaramente udibili in ebraico, molto vicine, insieme al suono degli spari”, ha detto Murad.
La condanna internazionale e le richieste di giustizia
L’attacco ha suscitato indignazione a livello globale. Jagan Chapagain, segretario generale della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (IFRC), ha dichiarato: “Sono devastato. Questi lavoratori delle ambulanze stavano rispondendo a persone ferite. Erano umanitari. Indossavano emblemi che avrebbero dovuto proteggerli; le loro ambulanze erano chiaramente contrassegnate. Avrebbero dovuto tornare dalle loro famiglie; non l’hanno fatto”. Il presidente della PRCS, Younis al-Khatib, ha definito l’attacco un “crimine di guerra punibile secondo il diritto umanitario internazionale” e ha chiesto un’indagine internazionale indipendente, dichiarando: “Per noi, questi 15 uomini rappresentano tutti coloro che sono stati uccisi per salvare vite, per il bene dell’umanità. Speriamo che questa volta, attraverso questi 15 uomini, si possa ottenere giustizia”.
Anche l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Volker Turk, ha condannato l’attacco, sottolineando che solleva “ulteriori preoccupazioni sulla possibile commissione di crimini di guerra da parte dell’esercito israeliano”. Philippe Lazzarini, capo dell’UNRWA, ha descritto la sepoltura dei corpi in “fosse poco profonde” come “una profonda violazione della dignità umana”.
Il contesto e la mancanza di accountability
L’attacco è avvenuto un giorno dopo la fine di una tregua di due mesi tra Israele e Hamas, il 17 marzo 2025, quando l’esercito israeliano ha ripreso le operazioni militari a Rafah. Secondo il ministero della salute di Gaza, l’offensiva israeliana ha causato oltre 51.000 morti palestinesi, per lo più donne e bambini, e ha distrutto gran parte delle infrastrutture della Striscia. Organizzazioni per i diritti umani, come Yesh Din, hanno accusato Israele di una “cultura di impunità”, con meno dell’1% delle denunce contro i soldati israeliani nei territori palestinesi occupati che si concludono con una condanna.
La PRCS ha riferito che, dall’inizio della guerra nell’ottobre 2023, almeno 30 dei suoi volontari e membri dello staff sono stati uccisi, 27 dei quali mentre erano in servizio. L’attacco del 23 marzo rappresenta il più grave episodio singolo contro operatori della Croce Rossa o della Mezzaluna Rossa dal 2017, secondo l’IFRC.
Un appello per la protezione degli operatori umanitari
Il racconto di Asaad al-Nasasra e le prove raccolte dalla PRCS e dalle Nazioni Unite dipingono un quadro inquietante di un attacco mirato contro operatori umanitari disarmati, in violazione delle norme del diritto umanitario internazionale che proteggono il personale medico e i veicoli di emergenza. Le organizzazioni umanitarie, tra cui la PRCS, l’OCHA e l’UNRWA, hanno chiesto un’indagine internazionale indipendente e un’azione concreta per garantire giustizia per le vittime e le loro famiglie.
Come ha dichiarato Dylan Winder, osservatore permanente dell’IFRC presso le Nazioni Unite: “Erano umanitari. Indossavano emblemi. Avrebbero dovuto essere protetti”. La comunità internazionale è ora chiamata a rispondere a queste accuse, mentre il mondo osserva se la giustizia prevarrà per i 15 operatori umanitari uccisi a Rafah e per il paramedico ancora disperso, Asaad al-Nasasra, il cui destino rimane incerto.