“Siamo in gabbia come in un pollaio”. Parla così al Tg2 Gaetano Mirabella Costa, uno dei due cittadini italiani attualmente detenuti nel centro per migranti Alligator Alcatraz, una struttura simbolo della linea dura sull’immigrazione imposta negli anni da Donald Trump.
“Siamo in 32 per ogni gabbia, tre bagni all’aperto, vedono tutti quello che fai – racconta l’uomo, siciliano di 45 anni, da dieci residente in Florida – non so che reato ho commesso, non ho parlato con un avvocato né con un giudice”. Le sue parole restituiscono l’immagine di un luogo disumano, dove le garanzie fondamentali sembrano sospese. E lancia un appello: “Uscire – dice – da questo incubo”.
Sua madre, angosciata, riferisce che il figlio “è stato portato con le catene alle mani e ai piedi come un cane”: un trattamento che evoca più una pratica punitiva che una procedura amministrativa, e che rende tangibile la crudeltà del sistema.
Con lui è detenuto anche Fernando Artese, 63 anni, italo-argentino. Secondo quanto riportato dal quotidiano La Nacion, Artese è stato fermato il 3 luglio a Jupiter per una semplice infrazione stradale, mentre cercava di tornare in auto in Argentina. Un controllo successivo ha rivelato che non era in regola con il permesso di soggiorno, e così è stato immediatamente trasferito in un centro di detenzione dell’ICE.
Luoghi come l’Alligator Alcatraz sono il prodotto diretto delle politiche securitarie e repressive volute da Donald Trump, che negli anni del suo mandato ha promosso un approccio feroce e disumanizzante verso i migranti, costruendo centri di detenzione che assomigliano più a carceri di massima sicurezza che a strutture per la gestione amministrativa dell’immigrazione.