Un gruppo di importanti personalità israeliane chiede sanzioni internazionali contro Israele per la carestia a Gaza

Un gruppo di figure pubbliche israeliane di alto profilo – tra cui accademici, artisti e intellettuali – ha rivolto un appello alla comunità internazionale affinché imponga “sanzioni paralizzanti” contro Israele, alla luce dell’orrore crescente per la fame imposta alla popolazione di Gaza.

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30 Luglio 2025 - 15.20


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Un gruppo di figure pubbliche israeliane di alto profilo – tra cui accademici, artisti e intellettuali – ha rivolto un appello alla comunità internazionale affinché imponga “sanzioni paralizzanti” contro Israele, alla luce dell’orrore crescente per la fame imposta alla popolazione di Gaza.

Tra i 31 firmatari della lettera pubblicata dal Guardian figurano Yuval Abraham, vincitore di un premio Oscar; l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair; Avraham Burg, già presidente del parlamento israeliano e a capo dell’Agenzia ebraica; oltre a numerosi vincitori del prestigioso Premio Israele, la massima onorificenza culturale del paese.

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I firmatari provengono da ambiti come la poesia, la scienza, il giornalismo e il mondo accademico. Nella lettera si accusa Israele di “stare affamando la popolazione di Gaza fino alla morte e di contemplare la rimozione forzata di milioni di palestinesi dalla Striscia”.

Il testo prosegue: “La comunità internazionale deve imporre sanzioni paralizzanti su Israele finché non porrà fine a questa brutale campagna e non attuerà un cessate il fuoco permanente.”

La lettera ha un peso particolare non solo per la durezza delle critiche rivolte a Israele, ma anche per il fatto di rompere un tabù: sostenere apertamente sanzioni internazionali severe in un Paese dove i politici hanno promosso leggi contro chi le invoca.

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Tra gli altri firmatari vi sono la pittrice Michal Na’aman; Ra’anan Alexandrowicz, pluripremiato regista di documentari; Samuel Maoz, regista del film Lebanon vincitore del Leone d’Oro; il poeta Aharon Shabtai e la coreografa Inbal Pinto.

Il crescente orrore internazionale per l’andamento della guerra israeliana a Gaza si riflette sempre più anche all’interno dello stesso Israele – e nella più ampia diaspora ebraica globale – di fronte alle immagini di bambini palestinesi denutriti e alle notizie di palestinesi affamati uccisi dall’esercito israeliano mentre cercavano cibo ai punti di distribuzione.

La pubblicazione della lettera coincide con l’annuncio che oltre 60.000 palestinesi sono stati uccisi nei 21 mesi di guerra tra Israele e Gaza, secondo il ministero della Sanità di Gaza.

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Lunedì, due importanti ONG israeliane per i diritti umani – B’Tselem e Physicians for Human Rights Israel – hanno diffuso rapporti in cui, per la prima volta, definiscono le azioni di Israele a Gaza come una politica “genocida”, infrangendo un altro tabù interno.

Domenica, anche il movimento riformato ebraico – la più grande denominazione ebraica negli Stati Uniti – ha dichiarato che il governo israeliano è “responsabile” della carestia in corso a Gaza.

Nessuno dovrebbe restare indifferente davanti alla fame dilagante che affligge migliaia di gazawi. Non dovremmo sprecare il nostro tempo a discutere le definizioni tecniche tra ‘fame’ e ‘malnutrizione pervasiva’.

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La situazione è tragica e mortale. Né possiamo accettare l’argomentazione secondo cui, poiché Hamas è la causa principale del fatto che molti gazawi stanno morendo di fame o sono sull’orlo della carestia, lo Stato ebraico non sarebbe comunque corresponsabile di questo disastro umanitario. La risposta morale deve partire da cuori colmi di angoscia di fronte a una tragedia umana di tale portata.

Bloccare cibo, acqua, medicine ed elettricità – specialmente ai bambini – è un atto indifendibile. Non lasciamo che il dolore ci renda indifferenti, né che l’amore per Israele ci accechi di fronte al grido dei più vulnerabili. Dobbiamo rispondere alla sfida morale di questo momento.

Queste prese di posizione seguono le dichiarazioni rilasciate all’inizio del mese dall’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, che in un’intervista al Guardian ha definito “campo di concentramento” la “città umanitaria” proposta dal ministro della Difesa israeliano da costruire sulle rovine di Rafah. Obbligare i palestinesi a trasferirvisi, ha detto Olmert, equivarrebbe a una pulizia etnica.

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Il primo ministro Benjamin Netanyahu, insieme ad altri funzionari e ONG di destra, continua a negare che vi sia una carestia a Gaza causata da Israele. Ciò nonostante, le prove contrarie sono schiaccianti, incluse quelle fornite dal sistema di classificazione della sicurezza alimentare dell’ONU (Integrated Food Security Phase Classification), e persino il riconoscimento da parte di Donald Trump della “vera fame” nella Striscia.

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