Gideon Levy è il giornalista, lo scrittore, l’intellettuale delle verità scomode. Scomode non solo per la destra golpista, messianica che governa Israele. Levy è scomodo anche per una opposizione senza spina dorsale politica., senza coraggio né visione realmente alternativa, se non nella moderazione (sic) del pugno di ferro contro i palestinesi rispetto ai fascisti di Tel Aviv. Una riprova è nel dibattito che si è aperto, dentro e fuori Israele, sul riconoscimento dello Stato di Palestina.
La posizione di Levy è netta, spiazzante, controcorrente. Che Haaretz ben sintetizza nel titolo che fa da cornice alla sua analisi.
Riconoscere la Palestina non fermerà il genocidio a Gaza: servono sanzioni contro Israele
Così Levy: “Il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese è un premio per Israele, che dovrebbe ringraziare ogni singolo Paese che lo concede, perché tale riconoscimento rappresenta un’alternativa fuorviante a ciò che dovrebbe essere fatto realmente: imporre sanzioni.
Il riconoscimento è un sostituto errato dei boicottaggi e delle misure punitive che dovrebbero essere adottate nei confronti di un Paese che perpetua il genocidio. Il riconoscimento è una dichiarazione di facciata vuota che i governi europei esitanti e deboli stanno utilizzando per dimostrare al loro pubblico infuriato di non rimanere in silenzio.
Riconoscere uno Stato palestinese che non esiste e che probabilmente non esisterà nel prossimo futuro è un silenzio vergognoso. La popolazione di Gaza sta morendo di fame e l’Europa reagisce riconoscendo uno Stato palestinese. Questo salverà i gazawi affamati? Israele può ignorare queste dichiarazioni, forte del sostegno degli Stati Uniti.
Si parla di uno “tsunami” diplomatico in Israele, ma questo non raggiungerà le sue coste finché il riconoscimento non sarà accompagnato dall’imposizione di un prezzo per il genocidio.
A superare se stesso è stato il primo ministro britannico Keir Starmer, uno dei primi a riconoscere la Palestina in questa ondata, dopo la Francia. Si è affrettato a presentare il suo gesto come una punizione (condizionata), adempiendo così al suo dovere. Se Israele si comporterà bene, ha promesso, ritirerà il suo dito puntato.
Che razza di punizione è questa, signor Primo Ministro? Se il riconoscimento della Palestina promuove una soluzione, come sostiene, perché presentarlo come una pena? E se è una misura punitiva, dov’è?
È così che va quando la paura di Donald Trump cala sull’Europa e la paralizza, quando è evidente che chiunque imponga sanzioni a Israele ne pagherà le conseguenze. Per ora, il mondo preferisce una festa verbale. Le sanzioni vanno bene quando si tratta delle invasioni russe, non di quelle israeliane.
La mossa di Starmer ha spinto molti altri a seguire il suo esempio, presentato in Israele come una valanga diplomatica, uno tsunami. Tuttavia, ciò non fermerà il genocidio, che non potrà essere fermato senza misure concrete da parte della comunità internazionale. Queste misure sono urgenti e indispensabili, perché le uccisioni e la fame a Gaza continuano.
Il riconoscimento non porterà nemmeno alla creazione di uno Stato. Come affermò una volta la leader dei coloni Daniella Weiss, dopo una precedente ondata di riconoscimenti? “Apro la finestra e non vedo nessuno Stato palestinese”. E non lo vedrà nemmeno lei nel prossimo futuro.
Nel breve periodo, Israele trae vantaggio da questa ondata di riconoscimenti, perché sostituisce la punizione che merita. A lungo termine, il riconoscimento di uno Stato immaginario potrebbe rivelarsi vantaggioso, in quanto solleva la necessità di trovare una soluzione.
Ma ci vuole un’enorme dose di ottimismo e ingenuità per credere che il riconoscimento sia ancora rilevante. Non c’è mai stato un momento peggiore: il riconoscimento ora è come fischiare nel buio. I palestinesi sono senza leader e i leader israeliani hanno fatto di tutto per ostacolare la creazione di uno Stato e ci sono riusciti.
È bello che il numero 10 di Downing Street voglia uno Stato palestinese, ma finché Gerusalemme non lo vorrà, con l’insediamento estremista di Yitzhar impegnato a distruggere le proprietà palestinesi e a diventare sempre più forte, e con Washington che sostiene ciecamente Israele, ciò non accadrà.
Quando la destra israeliana è al suo apice e il centro israeliano vota in parlamento per l’annessione e contro la creazione di uno Stato palestinese, quando Hamas è la forza politica più potente tra i palestinesi e i coloni e i loro sostenitori sono l’organizzazione più forte in Israele, di quale Stato palestinese stiamo parlando? Dove sarebbe?
Una tempesta in un bicchiere d’acqua. Il mondo adempie al suo dovere, mentre Israele distrugge e affama. Il piano di pulizia etnica sostenuto dal governo israeliano si sta realizzando a Gaza. Non si possono immaginare condizioni peggiori per coltivare sogni di indipendenza.
Dove verrebbe istituito? In un tunnel scavato tra Yitzhar e Itamar? Esiste una forza in grado di evacuare centinaia di migliaia di coloni? Quale?
Esiste un campo politico che lotterebbe per questo?
Sarebbe meglio se prima venissero prese misure punitive concrete che costringano Israele a porre fine alla guerra, perché l’Europa ha i mezzi per farlo, e poi mettere all’ordine del giorno l’unica soluzione rimasta: una democrazia tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, con il principio “una persona, un voto”. Apartheid o democrazia. Con nostro orrore, non esiste più una terza via”. Così conclude Gideon Levy. Ha ragione: per Israele non esiste una terza via.
Iniziare a tracciare le mappe: perché il riconoscimento astratto di uno Stato palestinese non basta.
Altra analisi “spiazzante” è quella, sempre sul quotidiano progressista di Tel Aviv, di Carolina Landsmann.
Annota l’autrice: “Complimenti al governo tedesco per aver aderito all’importante iniziativa guidata dalla Francia volta al riconoscimento dello Stato palestinese. Tuttavia, i tedeschi farebbero bene a prepararsi, perché la pressione a cui saranno sottoposti sarà di tutt’altro ordine. Non c’è niente che gli ebrei amino di più che accusare gli altri. Tutta l’artiglieria emotiva è già puntata contro di loro.
Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha già aperto il fuoco. “Ottant’anni dopo l’Olocausto, la Germania ha ripreso a sostenere i nazisti”, ha dichiarato. Guarda chi parla di nazisti. Consiglierei però al ministro degli Esteri tedesco di non sprecare parole con questo teppista. Basta inviargli uno specchio come regalo diplomatico, da appendere dove un tempo era appesa la foto del dottor Baruch Goldstein, l’eroe della sua gioventù e autore di un massacro.
Qualcuno che invece vale davvero la pena ascoltare è il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. “Per vent’anni ne abbiamo parlato come di un desiderio, ora è anche un piano d’azione realistico”, ha dichiarato. “Non abbiamo pagato questo prezzo per trasferire la Striscia di Gaza da un arabo all’altro. Gaza fa parte integrante della Terra di Israele”.
E non si accontenta di ricostruire l’ex blocco di insediamenti di Gush Katif a Gaza. “Deve essere molto più grande”, ha affermato, per poi passare a parlare della Cisgiordania. “Stiamo fomentando una rivoluzione”, si è vantato. “Stiamo applicando la sovranità di fatto: costruzioni legali, annunci, cambiando il DNA dell’intero sistema, costruendo strade”.
L’Israele ufficiale non ha mai ammesso di non essere interessato alla pace o al compromesso. La linea ufficiale è sempre stata e rimane la seguente: Israele cerca la pace, ma non ha un partner perché i palestinesi non hanno rinunciato al loro sogno di uno Stato che si estenda dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ama ripetere che i palestinesi vogliono uno Stato al posto di Israele, piuttosto che uno Stato accanto a Israele. Ma Smotrich ammette che Israele non è un partner.
Gli israeliani continuano a ripetere il mito secondo cui la responsabilità della mancanza di una soluzione spetta esclusivamente all’altra parte. Gli accordi di Oslo sono falliti a causa degli attacchi terroristici, la sinistra è crollata a causa della seconda Intifada e poi è arrivato il 7 ottobre 2023, segnando la definitiva disillusione. Solo un piccolo dettaglio è stato omesso: chi ha assassinato il primo ministro Yitzhak Rabin? Ricordate chi è stato?
Non è stato Hamas, né il presidente palestinese Mahmoud Abbas, né alcun palestinese, in realtà. L’assassino era israeliano e il blocco politico che ha condannato l’omicidio, ma ne ha elogiato i risultati, è al potere da allora, quasi ininterrottamente.
Non scrivo questo per incolpare Israele e assolvere la Palestina da ogni responsabilità, ma per ricordare alla gente che ci sono forze politiche, ideologiche e religiose da entrambe le parti che non sono disposte a cedere territorio, a prescindere da ciò che fa l’altra parte, e che sono pronte a tutto, in ebraico e in arabo, pur di impedire un compromesso. Di conseguenza, il mondo deve crearne uno per noi.
Tuttavia, il riconoscimento astratto di uno Stato palestinese non è sufficiente. Il mondo deve elaborare e proporre un nuovo piano di spartizione, in modo che i media israeliani possano riportarlo e mostrare al pubblico le mappe con un confine ben definito.
Vediamo i partecipanti ai talk show televisivi discutere animatamente se Gerusalemme Est sia dentro o fuori, invece di discutere se esista o meno un popolo palestinese. Sentiamo un professore spiegare con tono paternalistico a una giovane opinionista che non spetta a noi decidere dove sarà la capitale della Palestina. Parliamo degli insediamenti di Ariel, Itamar e Psagot, ma non del nostro diritto all’esistenza.
Più ci concentriamo sulle disposizioni concrete di una proposta concreta con confini e mappe ben definiti, più assimileremo gradualmente l’unica soluzione rilevante al conflitto israelo-palestinese.
Ai cittadini europei direi invece di non perdere tempo con lo spaventapasseri degli Affari Esteri Gideon Sa’ar e di non entusiasmarsi per la demagogia autocommiserativa del governo israeliano e dell’archetipo del manipolatore che lo guida, che vi condurrà in un circolo vizioso senza uscita. Prendete il telefono, chiamate il ricercatore Shaul Arieli e iniziate a disegnare una mappa”.
Il consiglio con cui Carolina Landsmann conclude la sua argomentata analisi, è davvero prezioso. La cartografia – in questo Limes con il lavoro di Lara Canali è imbattibile – aiuta a comprendere la realtà fattuale molto più di astratte, e spesso astruse, dissertazioni geopolitiche. Le mappe fotografano una realtà, quella della Cisgiordania, segnata da un’annessione de facto di ampia parte del territorio di Giudea e Samaria (il nome biblico della West Bank, quello che troverete in ogni carta stradale israeliana). Dove dovrebbe di grazia nascere uno Stato che sia tale e non una sorta di bantustan mediorientale? Su quale micro-porzione della Cisgiordania? Uno Stato che non ha piena sovranità sul proprio territorio è un aborto statuale, una farsa. Uno Stato che non ha il controllo delle risorse idriche (risorsa vitale per una parvenza di economia agricola), non può definirsi tale. Uno Stato che non ha il controllo dei confini, è una elemosina per dire ecco lo Stato palestinese esiste, abbiamo svoltato. Uno Stato che non conosce contiguità territoriale tra Gaza e la West Bank, tra i cisgiordani e i gazawi, si condanna ad una sorta di gerarchizzazione interna che discrimina tra i discriminati.
Le mappe raccontano un’altra storia. Una ipotetica soluzione a due Stati imporrebbe il ritiro d’Israele da buona parte della Cisgiordania e lo smantellamento della gran parte degli insediamenti. Ha ragione Landsmann: per farlo ci sarebbe bisogno di un imperioso intervento della comunità internazionale, condiviso da tutti gli attori, globali e regionali, che hanno voce in capitolo sul conflitto israelo-palestinese, a cominciare, ovviamente, dagli Stati Uniti. Non mi pare che sia all’ordine del giorno. Né oggi, né in un futuro prossimo.
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