La strage in corso a Gaza rappresenta una delle tragedie umanitarie più spaventose del nostro tempo. Oltre 60 mila morti – tra cui decine di migliaia di donne e bambini – intere famiglie cancellate, ospedali bombardati, scuole distrutte, chiese e moschee ridotte in macerie, agricoltura annientata, pesca vietata, fame imposta con metodo. Le denunce di civili uccisi, animali abbattuti per fame, ospedali lasciati senza elettricità, incubatrici spente, malati e neonati abbandonati a morire sono ormai documenti che parlano da soli.
Eppure, il ministro degli Esteri Antonio Tajani si rifiuta ostinatamente di usare la parola “genocidio”. Non una cautela diplomatica, ma una scelta deliberata, che suona sempre più come ipocrisia e servilismo poverso Israele, qualunque cosa faccia. Una scelta che offende non solo le vittime palestinesi, ma anche l’intelligenza di chi guarda con sgomento ciò che accade nella Striscia da quasi un anno.
La definizione giuridica di genocidio non è materia di opinione. L’articolo II della Convenzione ONU del 1948 parla chiaro: genocidio è qualsiasi atto compiuto con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale o religioso. Ciò comprende l’uccisione sistematica, le torture, le condizioni imposte per sterminare fisicamente quel gruppo. E cosa sta succedendo a Gaza, se non questo?
La distruzione deliberata della vita civile, la privazione programmata di cibo, acqua, medicinali, la propaganda disumanizzante che definisce i palestinesi “animali umani”, le torture e le morti in carcere, il rifiuto di restituire i corpi dei prigionieri uccisi: ogni elemento di questa catastrofe parla di una volontà precisa, calcolata, sistematica. Ma Tajani continua a voltarsi dall’altra parte. Per ragion di Stato? Per fedeltà atlantica? Per timore di turbare equilibri? Qualunque sia il motivo, il risultato è lo stesso: l’Italia tace mentre la popolazione civile viene annientata sotto le bombe.
Ma l’Italia non può limitarsi a recitare il ruolo di spettatore codardo. La diplomazia non è solo forma, è anche sostanza. Non si tratta di essere “contro Israele”, ma di avere il coraggio di dire la verità, anche quando è scomoda. Rifiutarsi di chiamare genocidio ciò che ne ha tutte le caratteristiche significa legittimare implicitamente l’orrore. E questo è indegno per un Paese che si proclama fondato sui diritti umani, sulla Costituzione, sull’antifascismo.
Il ministro Tajani dovrebbe domandarsi come verrà giudicato questo suo silenzio nei prossimi anni. Perché la storia non assolve chi resta neutrale di fronte ai crimini più gravi. Né lo faranno le nuove generazioni, né le vittime, né chi ancora crede che la politica estera debba avere un’anima e non solo calcoli.
Definire “genocidio” ciò che sta accadendo a Gaza non è estremismo né propaganda: è semplice adesione alla realtà, è dovere morale e giuridico. Ogni giorno di esitazione è una macchia in più sull’onore del nostro Paese.
Tajani ha ancora tempo per cambiare rotta. Ma quel tempo sta finendo.