Siria in bilico: quando la politica settaria mina la speranza di pace e riconciliazione
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Siria in bilico: quando la politica settaria mina la speranza di pace e riconciliazione

Negli ultimi giorni il governo siriano ha annunciato, con comprensibile entusiasmo, investimenti stranieri per 14 miliardi di dollari. Ma...

Siria in bilico: quando la politica settaria mina la speranza di pace e riconciliazione
al-Shaara
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

10 Agosto 2025 - 14.55


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Negli ultimi giorni il governo siriano ha annunciato, con comprensibile entusiasmo, investimenti stranieri per 14 miliardi di dollari. Per un Paese ridotto in polvere dalla guerra combattuta da eserciti di mezzo di mondo e infinite milizie locali e straniere per circa tre lustri, non è poco. Ma a guardar bene più che di contratti si tratta di diversi memoranda d’intesa, in settori ad alto rendimento come i trasporti in particolare, ma i settori che più premono ai siriani, cioè quelli energetici, visto che la corrente elettrica in casa almeno per più ore al giorno è un sogno per moltissimi, non figurano tra quelli interessati.

Soprattutto per quanto riguarda petrolio e gas si potrebbe fare molto di più, ma qui i giacimenti si trovano quasi esclusivamente nei territori controllati dai curdi, e tra il governo islamista di al-Sharaa e l’autoproclamato sistema autonomo curdo guidato dai miliziani curdi dell’SDF è di nuovo burrasca, al punto che l’attesissima conferenza di Parigi per mettere a posto la situazione dei rapporti tra il governo centrale e  curdi è saltata. Dovevano esserci con i francesi anche gli americani, per appianare i permanenti problemi e far ripartire la Siria, ma dopo la visita a Damasco del ministro degli esteri turco il governo di al-Sharaa si è chiamato  fuori dalla conferenza.

I territori controllati dai curdi sono una fetta assai grande di Siria, non un angolo. L’occasione per mandare tutto a monte è stata una conferenza programmatica promossa dai curdi del nord est della Siria, alla quale però hanno partecipato rappresentanti di tutte le altri componenti etniche e religiose presenti in quel territorio, che hanno firmato il documento finale. Il governo di al-Sharaa è quasi tutto espressione di esponenti della sua componente religiosa, cioè sunniti di orientamento islamista. E questo orientamento islamista deve aver spinto diversi leader e capi tribali sunniti non fondamentalisti a partecipare all’incontro promosso dai curdi. Premere sul tasto della contrapposizione etnica o religiosa è un errore, chiunque lo faccia. E al Sharaa che sunniti che non apprezzano il radicalismo religioso sono presenti soprattutto nelle grandi città. E invece il governo ha coperto massacri indiscriminati di ciivli alawiti prima e drusi poi, due gruppi molto chiusi, che oppongono resistenze all’integrazione per la sicurezza, ma che gli estremisti del fronte islamista accusano soprattutto perché li ritengono musulmani “eretici”. 

Il migliaio di vittime del primo massacro, quello di alawiti, aveva portato i curdi poche ore dopo a firmare un accordo quadro con il governo, che riconosceva alcune istanze di rispetto degli altri gruppi, in attesa di un’intesa definitiva. Ma il pluralismo che al-Sharaa aveva promesso è venuto meno il giorno dopo, quando il Presidente ha varato inattesamente una Costituzione provvisoria nella quale la lingua curda non è stata riconosciuta come seconda lingua nazionale, è lingua ufficiale solo l’arabo. E il nome della Repubblica non cambia, resta Repubblica Araba di Siria. Che ai curdi questi siano apparsi due voltafaccia è logico. Ma che dopo i massacri di cui si è detto invitassero esponenti religiosi di entrambi i gruppi religiosi ha dato il senso di una tensione crescente.

La convergenza è stata trovata facilmente sull’idea di unità nazionale siriana, ma nel decentramento, che sarebbe un toccasana se non settario, ma territoriale. I curdi non vivono da soli, come i drusi e gli alawiti; i loro territori sono condivisi con tribù sunnite, con le numerose comunità cristiane, piccole ma sparpagliate in tutti i territori e altri. Valorizzare i territori, le loro specificità, favorire l’autonomia amministrativa in modo da costruire finalmente legami interconfessionali tra persone, questo sembra il proposito più opportuno. Ma in questo quadro accanto a questo ci sono anche  rabbie, risentimenti profondi, ostilità verso il governo e i massacratori impuniti  va notato un passo falso, visto che in un commento autorevole un leader druso ha affermato che l’incontro dovrebbe segnare l’emergere di un’alleanza tra le minoranze. Questo è un duplice errore: stabilisce una divisione confessionale, settaria, la rende totale e irreversibile, autorassegnandosi a non essere cittadini di prima classe, ma “minoranze”. Inoltre schiaccia sui fondamentalisti sunniti anche i sunniti che non lo sono e che lo hanno dimostrato partecipando anche loro a questo incontro, condividendo il programma di decentramento.  Perché escludere che domani possano esserci, come si dovrebbe chiedere, partiti interconfessionali, che vedano insieme persone di tutte le diverse confessioni unite da un programma politico, progressista o conservatore? Questo riferimento a un’alleanza delle minoranze comunque non compare nel documento conclusivo, che invece ha opportunamente ricordato che chi discriminava i curdi e i drusi, chi imponeva l’arabo come unica lingua nazionale, era il regime di Assad, contro il quale tutti i soggetti citati, governo centrale, curdi e drusi, hanno combattuto. Forse è anche così che l’incontro ha saputo coinvolgere  i sunniti che non si riconoscono in egemonie e settarismi, ma nella rivoluzione siriana di tutti.

Va detto che comunque Damasco ha una ragione: nessuno Stato può accettare di governare un Paese dove ognuno ha la sua milizia: alawiti, drusi, curdi e così via. Questo comporta anche la proliferazione di bande irregolari, molte delle quali legate alla semplice criminalità organizzata. Anche il governo ha al suo fianco delle organizzazioni paramilitari. Quindi ha ragione a dire che ciò deve finire, che occorre che l’esercito diventi l’esercito nazionale, di tutti. L’esperienza del vicino Libano, dove Hezbollah era diventata una milizia-stato, lo testimonia. Ma se al-Sharaa vuole questo dovrebbe costruire un esercito credibile, con alti comandi inclusivi, ma preclusi a quei jihadisti stranieri che vi ha fatto entrare. La diffidenza è lecita, non solo comprensibile. 

Se due orrende stragi indiscriminate, rivolte anche contro bambini e donne, alcune delle quali sarebbero state sequestrate, hanno macchiato la gestione governativa nel breve volgere di pochi mesi, vuol dire per certo che il controllo delle armi e di chi le gestisce per conto del governo centrale  è lontano dall’essere affidabile. Questo è  un nodo ineludibile, che però va affrontato  non dimenticando che i curdi dispongono di un vero e proprio esercito, forte di 100mila armati. Loro vorrebbero che entrasse nell’esercito nazionale ma come corpo autonomo. Sembra eccessivo, come pretendere di dissolverli come neve al sole. Serve dunque  uno sforzo da parte di tutti, anche perché tutti sanno che Damasco è sostenuta dai turchi, non proprio amici dei curdi. E’ il governo probabilmente che dovrebbe fare il primo passo, pulendo i propri ranghi militari e preparando così il terreno per  costruire alti comandi aperti, inclusivi. Percorso arduo ma possibile. Manca però la fiducia e l’ormai assodata incapacità   di al Sharaa di individuare e punire i responsabili delle stragi è per molti  la conferma che di questo governo non ci si può fidare. Il coinvolgimento marginale di esponenti di tutte le varie comunità siriane nel governo provvisorio lo conferma. Forse al-Sharaa dovrà fare i conti con i gruppi più estremisti tra quelli che lo sostengono, questo non è chiaro: è chiaro però che quando si vuole costruire un Paese si devono fare delle scelte. Vale per lui come poi varrebbe per gli altri. 

Ora non si può che aspettare l’iniziativa americana. Turchi, curdi, governo siriano, drusi, hanno tutti buoni rapporti (chi crescenti , chi calanti) con gli americani. Prima che sia troppo tardi toccherà probabilmente  a loro spiegare a tutti come fare un passo indietro: e cominciare a pensare non come frazioni ma come popolo. 

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