In una scena di un film di Nanni Moretti, il protagonista se ne esce con l’affermazione, rimasta negli annali, “Compagni, il problema è un altro”. Classico esempio di un “cacadubbismo” che ha accompagnato per decenni la sinistra, istituzionale ed extraparlamentare. Questo refrain può essere applicato oggi al dibattito che si è aperto sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Lasciamo perdere quelli che appena sentono la parola Stato accomunato a Palestina danno in escandescenze e gridano alla provocazione. Ciò che m’interessa, invece, è riflettere sulle osservazioni critiche che sono emerse da sinistra, sintetizzabili in questo assunto: un atto simbolico che non ferma il massacro di Gaza.
Per rispondere a questa annotazione critica, penso sia utile riportare l’articolo scritto per Haaretz da Zehava Galon, già leader del Meretz, la sinistra pacifista israeliana.
Uno Stato palestinese non è una soluzione perfetta, ma è l’unica realistica
Questo il titolo, già di per sé indicativo. Che Galon argomenta così:” “Occuperemo la Striscia”, avrebbe dichiarato un alto funzionario dell’ufficio di Benjamin Netanyahu. “Se non agiamo ora, gli ostaggi moriranno di fame e Gaza rimarrà sotto il controllo di Hamas”.
Traduzione di questa manipolazione psicologica: il primo ministro ha deciso di sacrificare gli ostaggi, i soldati israeliani e la sicurezza dello Stato. E, come da tradizione, ha dichiarato di farlo per il bene degli ostaggi e della sicurezza del Paese.
Come sarà la vittoria? Proprio come la guerra. I soldati saranno bersagli facili. Ogni due giorni ci saranno morti e feriti. I soldati moriranno, mentre il governo esenta gli ultraortodossi dal servizio militare.
Israele non riuscirà a cancellare Hamas, proprio come non è riuscito a fare in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Non è difficile immaginare le conseguenze economiche e internazionali.
Siamo in un incubo, guidati da un governo che ha preso un Paese funzionante e, da due anni, si dedica alla distruzione dei valori. Eppure, il governo ha giocato su un campo vuoto.
I nostri amici di tutto il mondo hanno deciso di salvarci da noi stessi e hanno dichiarato la loro intenzione di riconoscere uno Stato palestinese. Secondo il governo, questa sarebbe una “ricompensa per Hamas”, come se non avessimo già vissuto due anni di distruzione da quando Israele ha deciso di trasformare il massacro e la sconfitta tattica del 7 ottobre in una sconfitta strategica.
Ma anche i leader dell’opposizione continuano a ripetere questo mantra. Il riconoscimento di uno Stato palestinese è un “errore basato su valori sbagliati”, ha affermato Yair Lapid, mentre Naftali Bennett lo ha definito “una valanga morale”. Benny Gantz lo ha definito “una dichiarazione vana che serve agli estremisti”, mentre Yair Golan ha affermato che “i passi unilaterali porteranno solo all’estremismo”.
Infine, Gadi Eisenkot si è vantato: “Non troverete da nessuna parte che io abbia detto ‘due Stati per due popoli'”. Allora, cosa state dicendo? Qual è il piano?
Francia, Gran Bretagna, Canada, Portogallo, Norvegia, Spagna e Belgio non sono nemici e non sono ingenui. Sanno che non esiste una soluzione militare al conflitto. Ci abbiamo provato per quasi 70 anni.
Ero a Parigi con attivisti israeliani e palestinesi per la pace, quando il presidente francese ha informato la coalizione Alliance for Middle East Peace della sua intenzione di riconoscere uno Stato palestinese. “Non c’è alternativa alla soluzione dei due Stati”, dicono i francesi. La parola chiave è “alternativa”: è ciò che l’opposizione dovrebbe proporre.
Per anni, l’opposizione ha rifiutato di mettere in discussione il concetto di “gestione del conflitto”. Il conflitto è solo una scheggia nel nostro sedere, ha aggiunto Bennett. Ebbene, ora la scheggia ci è arrivata alla gola.
Il 7 ottobre, la destra ha abbandonato la folle visione della gestione del conflitto a favore del “piano decisivo” del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich: apartheid totale, pulizia etnica e distruzione. E cosa propone l’opposizione di fronte all’incubo della “Riviera di Gaza” e dell'”imposizione della sovranità”? Ancora una volta, la gestione dei conflitti.
Riconoscere uno Stato palestinese non è una ricompensa per il 7 ottobre né una punizione per i due anni di governo folle. È un’ancora di salvezza. Il mondo ci osserva e vede una nazione intrappolata in un incubo e un governo che sacrifica i propri cittadini in nome di un futuro terrificante.
Non dovete vivere così, ci dice il mondo, mentre guarda le immagini dell’inconcepibile distruzione e delle uccisioni a Gaza che i media israeliani non mostrano. Non dovete essere un Paese che affama la propria gente, commette crimini di guerra, permette pogrom e abbandona i propri cittadini presi in ostaggio. C’è un’altra strada.
Uno Stato palestinese non è la soluzione perfetta, ma è l’unica realizzabile. Ci arriveremo, volenti o nolenti. Il mondo è pronto a darci una mano. La domanda è: continueremo a ignorare la sua offerta?”
Il piano di occupazione di Gaza sarà un fallimento per Israele e una vittoria per il regno di Netanyahu
Altro contributo analitico prezioso è quello, sempre dalle colonne del quotidiano progressista di Tel Aviv, di Jack Khoury, tra i giornalisti israeliani più addentro alla realtà palestinese.
Osserva Khoury: “Il solo fatto che nel gabinetto di sicurezza si discuta della possibilità di rioccupare la Striscia di Gaza, a quasi due anni dall’inizio della guerra, rappresenta una vittoria personale per il primo ministro Benjamin Netanyahu.
Non si è trattato di una discussione operativa immediata né di una manovra strategica esitante, ma piuttosto di un atto altamente simbolico e significativo. Il fatto che se ne possa discutere apertamente, a prescindere dalle decisioni, dalla loro attuazione e dalle loro conseguenze, esattamente a vent’anni di distanza dal piano di disimpegno e dallo sgombero degli insediamenti israeliani da Gaza, è un risultato importante. Non si tratta di un risultato di Israele, ma del regno di Netanyahu.
Due anni di bombardamenti massicci hanno trasformato Gaza in una terra desolata e inabitabile. Almeno 60.000 persone sono morte o risultano disperse, decine di migliaia sono rimaste ferite, centinaia di migliaia sono state sfollate e le infrastrutture della Striscia sono state distrutte. Sono stati emessi mandati di arresto internazionali nei confronti del primo ministro e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, una mossa senza precedenti nella storia di Israele.
Le previsioni di uno “tsunami politico” si sono avverate e molti Paesi hanno annunciato che riconosceranno la Palestina, o ciò che ne resta. Tuttavia, l’idea dell’occupazione rimane al centro del dibattito politico.
Ci sono però voci contrarie. Il capo di stato maggiore dell’IDF non è favorevole, i generali in pensione mettono in guardia dalle possibili complicazioni e le famiglie degli ostaggi gridano che questa mossa metterebbe in pericolo i loro cari. Anche i genitori dei soldati impegnati in combattimento e le mogli dei riservisti esprimono sincera preoccupazione per il destino dei loro figli e mariti.
Eppure, nonostante tutto, la maggior parte dei sistemi politici, militari e pubblici considera l’evento come un semplice passo in più, discusso principalmente dai media e solo marginalmente dall’opinione pubblica: il Paese non è in fiamme, la terra non trema e all’aeroporto Ben-Gurion si registrano numeri record di passeggeri.
È il momento di dire la verità: è possibile e necessario criticare il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Sono loro i diretti responsabili della situazione.
Sono loro a guidare il dibattito, a incitare e a fomentare, e a volte sembra quasi che godano del caos. Ma cosa dire di coloro che pretendono di essere un’alternativa? Quale visione offrono? Considerano la rioccupazione di Gaza una situazione temporanea che finirà se il governo verrà sostituito, o è ormai radicata nella coscienza israeliana?
Dal 7 ottobre, Israele ha attraversato diverse fasi di consapevolezza: lo shock, il dolore, il desiderio di punizione e vendetta. E oggi? Una fissazione per l’affermazione dei fatti sul terreno. Non per liberare gli ostaggi né per porre fine alla guerra, ma per continuare a vivere nell’illusione di un controllo totale, come se non avessimo imparato nulla dagli ultimi decenni. Questa non è solo un’altra guerra. È un’ideologia, una visione del mondo, un modello di governo.
È vero, anche dall’altra parte ci sono delle colpe. Hamas è diventata un’organizzazione scollegata dal territorio, dal popolo palestinese e dalla responsabilità fondamentale della leadership. Una leadership paralizzata che ha perso tutte le carte negoziali, compresi gli ostaggi, e di fronte a essa c’è l’impotente banda di Ramallah, per la quale pagare gli stipendi è diventato un risultato.
E il mondo arabo? Trasmette paralisi. Sissi, Abdullah, bin Salman: tutti tacciono, forse in attesa che la tempesta passi. Ma il vero dramma si sta consumando qui, in Israele. Non il “primo” Israele né il “secondo”, ma il “terzo”, dominato da un’ossessione cinica e sfrenata per la sopravvivenza politica. Un Israele in cui l’occupazione di Gaza può essere discussa come una questione tecnica.
Nel regno di Netanyahu, il semplice atto di parlare è un’azione in sé. Se nessuno è in grado di proporre una visione alternativa, questa discussione continuerà a creare una realtà non solo per questa generazione, ma anche per quelle future”.
Privandoli del diritto a un avvocato, Ben-Gvir sta intimidendo i prigionieri palestinesi
Quanto al fascista ministro della Sicurezza interna, la sua idea di diritti della persona, viene rinverdita dall’editoriale di Haaretz.
“Essere un avvocato che rappresenta prigionieri e detenuti palestinesi non è mai stato facile. Ma dall’inizio della guerra, nell’ottobre 2023, questo lavoro è diventato ancora più importante, sia perché le condizioni carcerarie sono peggiorate, sia perché i prigionieri sono più isolati, dato che Israele ha vietato alla Croce Rossa e alle loro famiglie di far loro visita.
Di conseguenza, gli avvocati sono diventati l’unico contatto dei prigionieri con il mondo esterno, nonché uno dei principali strumenti per esaminare e denunciare le condizioni carcerarie. Non sorprende, quindi, che il servizio penitenziario, sul quale il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir esercita un’influenza non minore di quella che ha sulla polizia, li stia perseguitando.
Uno dei metodi più comuni per farlo è impedire agli avvocati di accedere alle carceri per periodi che vanno da settimane a mesi. Queste decisioni si basano su informazioni dei servizi segreti che gli avvocati non possono vedere; quindi, sono praticamente impossibilitati a difendersi o a spiegarsi.
In un caso, il direttore della prigione di Ofer, Vadim Goldstein, ha negato l’accesso a un avvocato dopo un acceso scambio di opinioni. All’improvviso, sono emerse informazioni dei servizi segreti secondo cui l’avvocato stava trasmettendo messaggi ai detenuti.
In quel caso, Goldstein ha deciso di vietare l’ingresso a un avvocato per sei mesi dopo che questi aveva chiesto a una guardia carceraria se potesse portare una foto dei figli del detenuto all’incontro con quest’ultimo.
In questo caso, il servizio penitenziario non si è accontentato della pena, già piuttosto severa, ma ha anche diffuso un comunicato stampa diffamatorio in cui accusava l’avvocato di cercare di “trasmettere messaggi ai terroristi”. E i media si sono avventati con gioia sulla notizia. Tuttavia, in entrambi i casi, una petizione presentata al tribunale ha costretto il servizio penitenziario a fare marcia indietro e a revocare la pena.
Il servizio penitenziario ha più volte accusato gli avvocati di voler trasmettere i saluti della famiglia di un detenuto. A quanto pare, anche questo minimo livello di umanità è diventato un reato.
In altri casi, le guardie cercano semplicemente di logorare gli avvocati, facendoli attendere il detenuto con cui devono incontrarsi e concedendo loro solo pochi minuti per l’incontro. Inoltre, fissano intervalli irragionevoli tra una visita e l’altra e chiedono di leggere i loro documenti, comprese le dichiarazioni giurate, come condizione per permettere loro di svolgere il proprio lavoro.
Non dobbiamo accettare un comportamento del genere, che ha lo scopo di intimidire. Dobbiamo sostenere gli avvocati che scelgono di occuparsi dei diritti umani e di garantire condizioni dignitose ai prigionieri, a prescindere dalla loro identità.
L’Ordine degli Avvocati deve esprimersi in modo inequivocabile a nome di questi avvocati. Inoltre, il servizio penitenziario dovrebbe ricordare che ha il dovere non solo di proteggere la salute e l’integrità fisica dei detenuti, ma anche di consentire agli avvocati di svolgere il loro lavoro essenziale”.
Così Haaretz. Così è Israele sotto un regime golpista.
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