Lettera da Israele: "Tante parole, pochi fatti: perché l'Occidente non interviene a Gaza?"
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Lettera da Israele: "Tante parole, pochi fatti: perché l'Occidente non interviene a Gaza?"

Tante parole, pochi fatti: perché l'Occidente non interviene a Gaza? La domanda-titolo fa da cornice all’analisi, del tutto condivisibile, che su Haaretz, fa Yagil Levy.

Lettera da Israele: "Tante parole, pochi fatti: perché l'Occidente non interviene a Gaza?"
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

14 Agosto 2025 - 17.58


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La domanda sgorga spontanea. E mette in luce l’ignobile doppiopesismo dell’Occidente.

Tante parole, pochi fatti: perché l’Occidente non interviene a Gaza?

La domanda-titolo fa da cornice all’analisi, del tutto condivisibile, che su Haaretz, fa Yagil Levy.

Osserva Levy: “Nel settembre 2005, un vertice delle Nazioni Unite ha approvato il principio della “Responsabilità di proteggere”, ovvero il dovere degli Stati di salvaguardare le proprie popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità. Quando un governo non adempie a tale dovere, la comunità internazionale ha l’obbligo di ricorrere a misure diplomatiche, umanitarie e di altro tipo per proteggere la popolazione colpita. Se necessario, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite può imporre sanzioni o autorizzare l’uso della forza militare.

Questo principio è stato pienamente attuato nel 2011, quando il Consiglio di sicurezza ha autorizzato l’uso della forza contro la Libia per proteggere i suoi cittadini dai crimini commessi dal loro stesso governo.

In circostanze normali, ci si potrebbe aspettare un’aumentata pressione internazionale per applicare la “responsabilità di proteggere” a Gaza, una volta che l’Autorità palestinese, in qualità di sovrano responsabile, non è riuscita a salvaguardare il suo popolo. Tale pressione includerebbe probabilmente richieste di sanzioni e, se necessario, azioni militari.

Ciò sarebbe particolarmente vero dopo che la decisione del Consiglio di sicurezza di marzo 2024 e le sentenze della Corte internazionale di giustizia di gennaio 2024 (entrambe che richiedono a Israele di prevenire una crisi umanitaria a Gaza) non sono state rispettate e dopo le ripetute violazioni del diritto internazionale da parte di Israele: la distruzione di Gaza, gli attacchi alla popolazione e gli sfollamenti di massa.

Eppure, l’intervento non è nemmeno all’ordine del giorno. Attualmente, gli Stati Uniti stanno ponendo il veto a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza molto più moderate e hanno recentemente bloccato una proposta che, tra le altre misure, chiedeva la revoca delle restrizioni all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza.

In confronto, nel 1999 (prima ancora che fosse formalizzata la “responsabilità di proteggere”), la NATO aggirò il Consiglio di Sicurezza e bombardò la Serbia per fermare la pulizia etnica degli albanesi in Kosovo. All’epoca, circa 2.000 civili albanesi erano stati uccisi, rispetto ai 30.000 di oggi a Gaza, e 350.000 erano stati sfollati, contro i due milioni di Gaza. Quel livello di sofferenza era sufficiente perché i leader della NATO, guidati dal presidente americano Bill Clinton, tenessero discorsi appassionati sul dovere morale e invocassero la memoria dell’Olocausto.

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Secondo questa logica, il disastro ben più grave che si sta consumando oggi a Gaza, unito al fatto che la maggior parte degli europei attribuisce la piena responsabilità a Israele, dovrebbe spingere i leader europei a sollecitare un intervento della NATO. Potrebbero persino trarre ispirazione dal recente comportamento di Israele: solo due settimane fa, Israele ha agito, apparentemente in rappresentanza della comunità internazionale, applicando il principio della “responsabilità di proteggere” e colpendo la Siria per difendere la popolazione drusa.

Eppure, nel caso di Gaza, è dubbio che qualcuno in Occidente stia prendendo in considerazione un’azione militare contro Israele, un blocco aereo o anche misure minime come lo schieramento di forze per separare i gazawi dall’IDF. È altamente improbabile che Israele si scontri apertamente con le forze occidentali, anche se qualche ministro lo spingesse a farlo (dopotutto, la sua aviazione ha già dimostrato di poter raggiungere la Polonia…).

La verità è che nessuno in Occidente prenderebbe in considerazione questa ipotesi. Israele gode della protezione degli Stati Uniti, è ancora percepito come parte dell’Occidente, un pilastro del “muro di ferro” contro il mondo musulmano, e spesso suscita simpatia a causa del trauma del 7 ottobre, che ricorda l’Olocausto.

Così, i paesi occidentali continueranno a guardare la fame, la distruzione, le uccisioni e gli sfollamenti di massa a Gaza. Continueranno a guardare i bambini sepolti a Gaza, i cui corpicini stanno seppellendo l’identità morale di Israele”.

Non c’è che dire chapeau.

Galoppando verso l’abisso, un capo dell’Idf alla volta

Ovvero, la flebile resistenza del tcomandante Zamir. 

A scriverne, sempre sul quotidiano progressista di Tel Aviv, è Noa Osterreicher. :” Quando l’ordine mondiale che conosciamo viene stravolto, ci sono due costanti su cui possiamo contare: lo spettacolo horror transatlantico della famiglia Netanyahu e il rituale dei leader dei coloni che urinano pubblicamente sulla testa di qualche figura di spicco dell’establishment della difesa, seguito dalla richiesta di sostituirlo con un modello più “combattivo”, poi dalla delusione per il sostituto e così via.

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La rimozione di Herzi Halevi dalla carica di capo di Stato Maggiore dell’Idf e la nomina di Eyal Zamir al suo posto è la versione su scala nazionale di ciò che i coloni hanno fatto per anni nel loro piccolo Far West: la Cisgiordania. Proprio come quasi tutti gli inviati americani in Medio Oriente, che arrivano qui fermamente filoisraeliani e ripartono maledicendoci per dieci generazioni, fanno i capi del Comando Centrale dell’Idf e i comandanti della polizia del distretto di Giudea e Samaria.

Anche coloro che posano sorridenti per le foto con il presidente del Consiglio regionale della Samaria, Yossi Dagan, presso la Tomba di Giuseppe, finiscono per essere, metaforicamente, ricoperti di pece e piume lungo la strada secondaria di Huwara.

Come il gusto dei Netanyahu per i piaceri a spese degli altri, nulla può soddisfare l’appetito dei coloni. Nemmeno gli ufficiali del loro stesso campo ideologico sono al sicuro. In passato, c’era almeno una breve luna di miele tra la nomina e la delusione; ora, la pressione e la paura che questo periodo miracoloso possa finire hanno cancellato anche quella.

Zamir non ha nemmeno avuto 100 giorni di tregua tra la promozione al grado di “cavallo al galoppo” e l’umiliazione, e non da parte di chiunque, ma da parte del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, un uomo per il quale non c’è abbastanza cemento al mondo da poter colmare l’abisso tra le sue parole e le sue capacità.

Qual è stato il grande peccato di Zamir? Ha consegnato valigette piene di contanti a Hamas? Ha protetto dei criminali che lavoravano per uno Stato nemico in tempo di guerra? Ovviamente no.

Il suo crimine è stato quello di aver osato esprimere riserve, in qualità di comandante in capo dell’esercito incaricato di eseguire la politica del governo, sull’idea disastrosa di conquistare Gaza. Anche i cavalli al galoppo vedono il bordo del precipizio e, a differenza degli esseri umani, nessuna propaganda può spingerli a gettarsi volontariamente nel vuoto. Ma qui il cavallo non può decidere. Se uno si rifiuta di uccidersi, ne portiamo un altro. Se anche quello si rifiuta, lo spingiamo giù. In questo modo gli diamo una lezione e mostriamo agli altri cavalli che nessuno può opporsi a noi.

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Lo scontro con la realtà sarebbe spettacolare, se non fosse mortale per tutti noi. Tutti sono combattivi, tutti galoppano, tutti sanno tutto, finché non accettano il lavoro e, con nostro orrore, si rivelano gentili colombe bianche a cui bisogna torcere il collo sul posto. Se Erez Wiener, che secondo alcune voci starebbe aspettando la chiamata, pensa che il suo destino sarà diverso, ho un bel pezzo di terra nell’Hadhramaut da vendergli.

A giudicare dall’agitazione dei Mangiamorte della coalizione e dalla loro cassa di risonanza mediatica, sembra che Zamir si sia unito a “Breaking the Silence”. Sta ancora sguazzando nel sangue di Gaza? Sì. Sta ancora attuando una politica in bilico tra la pulizia etnica e il genocidio vero e proprio? Sì. Allora, cosa vogliono da lui i Ben-Gvir di questo mondo? Di più. Più palestinesi assassinati, più ostaggi morti, più cadaveri ammassati su carri trainati da asini scheletrici.

 Il collasso economico? Il boicottaggio internazionale? Non gliene importa nulla: non parlano inglese, non hanno professioni richieste, non fanno ricerca in campi vitali, non fanno nulla di utile per il genere umano. Non dormiranno né riposeranno finché la terra non sarà rossa di sangue. Sangue dai rubinetti, sangue nei ruscelli. Quando, nel marzo del 2023, Orit Strock ha affermato che un ritorno a Gaza avrebbe comportato “molti sacrifici”, non si trattava di una profezia, ma di una promessa. E i Cavalieri dell’Apocalisse – Conquista, Guerra, Carestia e Morte – non possono compiere la loro missione senza cavalli. Il nostro regno per un cavallo.

Il nostro regno per un cavallo”.

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