In morte di Mariam Abu Daqqa e di tutti i giornalisti uccisi perché raccontavano gli orrori di guerre e dittature
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In morte di Mariam Abu Daqqa e di tutti i giornalisti uccisi perché raccontavano gli orrori di guerre e dittature

La storia di Mariam Abu Daqqa, oltre all’orrore per i crimini di Israele, ci riporta a quello che la nostra professione è e deve essere: raccontare, spiegare, studiare, denunciare, sporcarsi le mani e consumare le suole delle scarpe.



In morte di Mariam Abu Daqqa e di tutti i giornalisti uccisi perché raccontavano gli orrori di guerre e dittature
Mariam Abu Daqqa uccisa a Gaza
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Gianni Cipriani Modifica articolo

25 Agosto 2025 - 16.36


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Non conoscevo Mariam Abu Daqqa, come non conosco quei veri e propri eroi dell’informazione che a rischio della loro vita sfidano la censura di Israele e testimoniano il massacro, lo sterminio, il genocidio come si voglia chiamare ciò che accade a Gaza.



Ma in poco tempo, grazie a molti dei suoi colleghi sopravvissuti all’ennesima strage, ho saputo che aveva 29 anni e da diversi anni lavorava come giornalista nella Striscia.

Scriveva di donne, bambini, diritti negati: le sue cronache cercavano di restituire umanità in mezzo alla distruzione.

È rimasta uccisa ieri in un raid israeliano uno dei tanti che continuano a colpire gli ospedale e assassinare innocenti.

Figlia di una famiglia radicata a Khan Younis, Abu Daqqa aveva studiato giornalismo con la convinzione che raccontare significasse resistere. Negli ultimi mesi, spiegano i colleghi, non aveva mai smesso di inviare reportage nonostante i blackout elettrici, la fame e il terrore dei bombardamenti.

Raccontava storie di scuole trasformate in rifugi, di madri che cercavano di proteggere i figli, di vite normali spazzate via.

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Il Guardian la ricorda come una giornalista “determinata, capace di dare un volto e un nome a numeri altrimenti anonimi”. La Cnn ha sottolineato come la sua morte si inserisca nel bilancio sempre più pesante dei reporter palestinesi caduti in questa guerra.

Secondo i dati diffusi da organizzazioni di giornalismo, oltre 150 professionisti dell’informazione sono stati uccisi a Gaza dall’inizio del conflitto. Un record di morti terribile.

Abu Daqqa era anche una voce ascoltata nel mondo arabo: spesso collaborava con testate regionali e partecipava a trasmissioni radiofoniche dedicate ai diritti delle donne. Nei suoi ultimi interventi aveva denunciato la fame che colpisce i bambini del sud della Striscia.

Ma per qualcuno tutto ciò non era un merito ma una colpa. La sua uccisione non è solo la perdita di una giovane giornalista, ma anche l’ennesima ferita alla possibilità di raccontare con onestà quello che accade a Gaza. Perché “ogni volta che un cronista cade, si spegne una parte della verità”.



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La stampa, so perfettamente, gode patradossalmengte di ‘cattiva stampa’. Un po’ per colpa dei giornalisti (soprattutto degli editori) ma anche per effetto di quel magma reazionario-demagogico disinformato secondo il quale l’informazione deve essere fatta dai cittadini, come ha detto – ultimo di una lunga schiera – Elon Musk, padrone di un social regno di bot e haters che diffonde razzismo, odio e disinformazione.



La storia di Mariam Abu Daqqa, oltre all’orrore per i crimini di Israele, ci riporta a quello che la nostra professione è e deve essere: raccontare, spiegare, studiare, denunciare, sporcarsi le mani e consumare le suole delle scarpe.



In morte di Mariam Abu Daqqa, e di tutti i giornalisti uccisi mentre raccontavano le guerre per far conoscere i crimini e per farci amare ancora di più la pace. Ma la pace giusta, non la sottomissione.
 Non consentiremo, per parafrasare Tacito, che si faccia della Palestina un deserto per poi chiamare tutto coò pace. Per Marian e per tutti.

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