Israele è nato per la guerra e prospera grazie ad essa
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Israele è nato per la guerra e prospera grazie ad essa

In questi anni, pre e post 7 ottobre 2023, Globalist ha cercato, con il decisivo contributo delle migliori firme del giornalismo israeliano, di scavare in profondità nella psicologia  di una nazione – Israele –.

Israele è nato per la guerra e prospera grazie ad essa
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Settembre 2025 - 21.50


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In questi anni, pre e post 7 ottobre 2023, Globalist ha cercato, con il decisivo contributo delle migliori firme del giornalismo israeliano, di scavare in profondità nella psicologia  di una nazione – Israele –. Un Paese, un popolo che vive, e si pensa, in una guerra perenne. La guerra come normalità. Con la quale si impara a convivere, che plasma i comportamenti, individuali e collettivi, che scandisce la quotidianità, che si tramanda di generazione in generazione. La guerra come destino. Ineluttabile. Per difendersi o, come nel caso di Gaza, per portare a termine una “missione epocale”: eliminare la questione palestinese eliminando i palestinesi. 

Israele è nato per la guerra e prospera grazie ad essa

Così Odeh Bisharat su Haaretz: “Un Paese di 10 milioni di abitanti ha trascorso gli ultimi due anni combattendo una guerra su cinque fronti, sostenendo ingenti spese militari, la perdita di milioni di giorni lavorativi dei civili a causa del servizio militare e, come se non bastasse, deve anche sostenere i costi per il sostegno degli ultraortodossi e dei coloni. Eppure, i centri commerciali, i ristoranti e i caffè sono affollati, i voli per i viaggi all’estero sono sempre pieni e il tasso di disoccupazione è in calo. Il mercato azionario è in crescita, l’inflazione è sotto controllo e lo shekel è forte. Stiamo assistendo a un miracolo moderno?

Tutte le cupe previsioni economiche formulate dal campo anti-Netanyahu in merito alla riforma della giustizia e alla guerra di Gaza si sono rivelate infondate. Ora la domanda è: perché Israele si è arricchito con la guerra, mentre altri paesi soffrono di alta inflazione e carenze? L’Iran, un gigante petrolifero, sta affrontando carenze di carburante ed elettricità, mentre qui in Israele i condizionatori funzionano a pieno regime, le autostrade sono affollate di auto di ultima generazione e l’energia scorre copiosa.

Questa situazione paradossale può essere spiegata dal fatto che Israele è nato come Stato belligerante, in linea con il carattere del suo fondatore, David Ben-Gurion, che si definiva “un uomo di conflitti”. Il suo successore, Moshe Sharett, ha provato a cambiare rotta, ma non ha avuto alcuna possibilità e ben presto è stato emarginato.

 Basta osservare cosa siamo diventati a causa di questa eredità di conflitti che non si ferma mai, nemmeno per un momento. Aharon Haliva, ex capo dell’intelligence militare, ha recentemente affermato che i palestinesi “hanno bisogno di una Nakba occasionale per sentirne il prezzo”. Ma per questa Nakba servono molti soldi. Haliva non sembra preoccupato: i soldi ci sono. Prima di lui, Moshe Dayan, poco dopo la guerra del 1967, aveva affermato: “Oggi abbiamo stabilito il confine nei luoghi che abbiamo raggiunto… Ogni generazione stabilisce i propri confini”.

Tuttavia, questo tipo di appetito comporta dei costi economici. Il denaro, tuttavia, non è un problema e non ostacola l’esercito nel perseguire la sua sacra missione: causare ulteriori Nakba e creare nuovi confini.

Per quanto riguarda la comunità internazionale, che potrebbe fungere da freno all’espansionismo israeliano, Israele ritiene di avere diritto al sostegno diplomatico e di altro tipo, chiedendo sempre più assistenza. Israele è consapevole di essere l’unico disposto a svolgere il lavoro sporco nella regione, come ha affermato una volta il cancelliere tedesco Friedrich Merz. Robert Kennedy Jr., segretario alla Salute e ai Servizi Umani degli Stati Uniti, ha dichiarato che Israele è “un baluardo per noi… È quasi come avere una portaerei in Medio Oriente”. L’Occidente non ha alternative a Israele e, sfidando l’opinione pubblica su quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania, non lo abbandonerà. Ecco perché le richieste di intervento occidentale per frenare i militanti messianisti che detengono il potere in Israele sono così patetiche. L’unica alternativa sarebbe mandare i giovani di Berlino o di Manhattan a fare il lavoro sporco. Ma non succederà.

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Nonostante l’attuale leadership israeliana metta in imbarazzo l’Occidente con le sue azioni folli e le sue dichiarazioni sanguinose, questo non fa alcuna differenza. Chiunque siano i leader di Israele, l’Occidente continuerà a sostenerli. Dopotutto, dove altro si potrebbe trovare un Paese in cui le madri accompagnano con orgoglio i propri figli agli uffici di reclutamento dell’esercito perché facciano il lavoro sporco per l’Occidente? Ecco perché l’economia israeliana rimarrà solida. L’Occidente, a prescindere da tutto, non abbandonerà la sua portaerei.

A causa di questa convergenza di interessi, in Israele si è creato un ceto molto ampio per il quale l’esercito rappresenta una fonte di pensioni e stipendi sostanziosi. I suoi beneficiari non rinunceranno facilmente a questa miniera d’oro. Dopo tutto, il sostentamento viene prima di tutto.

Dopo tutto, il sostentamento viene prima di tutto”.

Temendo un calo dell’affluenza alle urne, l’Idf lotta per ogni riservista, nel mezzo della crisi di fiducia nel governo israeliano.

Tuttavia, anche un Paese in trincea, che fa dello stato di guerra la propria normalità, deve fare i conti con un dato che differenzia l’attuale guerra di Gaza da tutte le precedenti che hanno segnato i 77 anni di storia dello Stato ebraico. Questa peculiarità non sta solo e tanto nelle dimensioni apocalittiche delle vittime, quanto nella sua durata. Mai così lunghe furono le altre guerre d’Israele. 

Di questo dà conto, in un documentato report sul quotidiano progressista di Tel Aviv, Yaniv Kubovich.

Spiega Kubovich: “Le circa 60.000 cartoline di richiamo in servizio di riserva inviate dall’Idf il mese scorso entreranno in vigore martedì e si stima che decine di migliaia di riservisti si presenteranno alle proprie basi prima dell’operazione militare pianificata per la conquista della città di Gaza.

 La maggior parte di questi riservisti ha già prestato servizio per centinaia di giorni dall’inizio della guerra e ora è tenuta a prestare servizio per altri tre mesi, con la possibilità di un prolungamento di un mese, a seconda dell’andamento dei combattimenti nella Striscia di Gaza.

Una parte significativa delle truppe sarà inoltre impiegata in missioni in Cisgiordania e nel nord di Israele per dare il cambio ai soldati di leva.

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I riservisti, alcuni dei quali sono stati richiamati per un altro turno e altri che sono già in servizio da 40 giorni, hanno dichiarato a Haaretz che questo è il turno più difficile finora. Molti sono combattuti tra le preoccupazioni per gli ostaggi detenuti da Hamas e alcuni hanno dichiarato di non credere negli obiettivi dichiarati dal governo.

Secondo alti funzionari dell’Idf, l’attuale crisi di fiducia tra l’establishment della difesa e il governo si sta diffondendo tra i ranghi dell’esercito. Ai comandanti di alto livello è stato chiesto di parlare con i soldati e di permettere loro di esprimere i propri sentimenti prima dell’incursione terrestre.

“Parliamo e diciamo quello che pensiamo, ma non ci sono risposte”, ha dichiarato a Haaretz un riservista che deve presentarsi alla base di Tze’elim, nel sud di Israele. “Non ricordo di aver provato una sensazione così pesante nelle precedenti missioni. Anche solo parlando con i comandanti, è evidente che stiamo entrando in una guerra che neanche l’Idf vuole”.

“Nessuno può raccontarmi favole dopo 280 giorni di combattimenti a Gaza. Conosco Gaza, purtroppo. La conquista di Gaza non ha nulla a che vedere con il ritorno degli ostaggi. Tutti noi lo capiamo”, ha concluso.

L’Idf è preoccupata per la scarsa affluenza dei riservisti. L’esercito intende nascondere i numeri esatti e può manipolare i dati per minimizzare l’assenteismo, ma la complessità della situazione è evidente a tutti sul campo.

Un riservista di una delle brigate attualmente impegnate nei combattimenti a Gaza ha dichiarato che, anche prima dell’attuale chiamata alle armi e della proroga del servizio, alcuni avevano già chiesto di non partecipare a questa rotazione. Secondo quanto riferito, i comandanti hanno verificato con ciascun soldato la sua capacità e disponibilità a partecipare.

“Ognuno ha i propri problemi e, alla fine, c’è questa lista di chi intende presentarsi”, ha detto. “Circa un quarto delle nostre forze è costituito da rinforzi; sono quasi come dei mercenari”.

Il risultato è che i comandanti della brigata devono riorganizzare tutto il personale. “Chiunque sia venuto come rinforzo dovrà tornare alla propria brigata o battaglione di origine”, ha aggiunto. “Nessun comandante rinuncerà ai propri soldati oggi; ogni soldato addestrato è una risorsa per cui vale la pena combattere. L’Idf è completamente disorganizzata. Con così tante brigate e battaglioni mobilitati, ora dobbiamo ristrutturarci e riportare il personale alle unità organiche esistenti il 7 ottobre”.

L’Idf riconosce e comprende il crescente disagio tra i riservisti. Alti ufficiali militari affermano che il capo di Stato Maggiore, Eyal Zamir, ha cercato di evitare una mobilitazione su così larga scala e ha persino proposto al governo piani operativi che non richiedessero un richiamo su vasta scala, ma questi sono stati respinti.”

Rapporto: un documento interno dell’Idf conclude che l’offensiva durata mesi a Gaza è fallita.

Ovvero, come la propaganda bellicista alimentata dal peggiore governo nella storia d’Israele, prova a oscurare la realtà. Salvo poi essere smentito dalle rivelazioni di quei (pochi) giornali o canali televisivi che hanno mantenuto la schiena dritta, rivendicando e praticano la libertà d’informazione nonostante le pressioni, le minacce, le pratiche coercitive messe in atto dal governo Netanyahu.

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Giornalismo d’inchiesta, dunque. A cui fa riferimento un editoriale di Haaretz: “Secondo quanto riportato domenica da Channel 12 News, un documento interno delle Forze di Difesa israeliane conclude che la recente offensiva militare a Gaza, durata mesi, è fallita.

Il documento afferma che Israele ha commesso “ogni errore possibile”, conducendo una guerra “contraria alla propria dottrina militare”. Aggiunge che Hamas aveva “tutte le condizioni per sopravvivere e vincere” e che molti degli obiettivi chiave della guerra non sono stati raggiunti. Hamas non è stato sconfitto e gli ostaggi non sono stati liberati né con un’azione militare né con un accordo negoziato.

Il documento afferma inoltre che Israele ha inavvertitamente fornito risorse a Hamas, ha esaurito le proprie forze e ha perso il sostegno internazionale.

Il documento elenca le ragioni principali del fallimento dell’operazione Gideon’s Chariots, lanciata da Israele a maggio. Tra queste, la distribuzione degli aiuti umanitari è stata pianificata e attuata in modo inadeguato, il che, secondo il documento, ha permesso a Hamas di condurre una “campagna mediatica” internazionale che dipingeva Gaza come una zona afflitta da una carestia diffusa. Tra le altre carenze citate, vi sono il dispiegamento delle truppe in aree in cui avevano già operato in precedenza e i metodi di combattimento dell’Idf, rivelatisi inadatti a contrastare le tattiche di guerriglia di Hamas.

Oltre ai fallimenti, il documento illustra anche i risultati positivi dell’operazione. Si afferma che le infrastrutture di Hamas nella zona cuscinetto creata dall’esercito lungo il confine con Israele e in altre regioni sono state completamente distrutte e che l’Idf ha inferto duri colpi agli operatori e alle strutture del gruppo. Si osserva inoltre che sono stati recuperati i corpi di diversi ostaggi e che la leadership di Hamas ha subito battute d’arresto, in particolare con l’assassinio dell’ex leader del gruppo a Gaza, Mohammed Sinwar.

In risposta, l’Idf ha dichiarato: “Questi contenuti sono stati diffusi senza autorizzazione e senza l’approvazione delle parti interessate. L’Idf ha raggiunto gli obiettivi prefissati per l’operazione Gideon’s Chariots e ha conseguito numerosi risultati”.

Di quest’ultimo avviso non sono gli israeliani, centinaia di migliaia, che hanno invaso le piazze del Paese accusando Netanyahu e soci di sacrificare cinicamente la vita degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. 

E’ l’Israele resiliente, che si oppone ai golpisti di Tel Aviv e alla pulizia etnica condotta a Gaza come ai pogrom dei coloni esaltati e sostenuti da ministri fascisti quali Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvri, e spesso supportati dall’esercito israeliano, nei loro quotidiani atti di violenza pogromista contro i villaggi palestinesi in Cisgiordania. 

Globalist continuerà a dar voce a questa parte d’Israele che combatte contro chi, assieme al popolo palestinese sta distruggendo ciò che resta di democrazia in un Paese marchiato dalla destra messianica e dai suoi folli disegni di suprematismo ebraico. 

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