In un’ennesima deriva autoritaria che evoca i peggiori incubi del maccartismo, l’amministrazione Trump sta orchestrando una crociata sistematica contro i gruppi liberali e le organizzazioni progressiste, etichettandole come “reti terroristiche domestiche” per giustificare persecuzioni e silenziamenti. Al centro di questa operazione si trova Stephen Miller, l’ideologo estremista della Casa Bianca, che coordina un vasto arsenale di agenzie federali – dall’FBI al Dipartimento di Sicurezza Interna, passando per il Dipartimento di Giustizia, l’Internal Revenue Service e il Tesoro – con l’obiettivo di colpire donatori democratici, fondazioni umanitarie e coalizioni per i diritti civili.
Ciò che emerge dalle fonti interne è un quadro allarmante: un potere esecutivo che si piega alla vendetta politica e alla repressione del dissenso. Miller, secondo diverse testimonianze, avrebbe ordinato una revisione approfondita delle reti finanziarie di presunte “organizzazioni terroristiche domestiche”, includendo non profit e istituzioni educative accusate – senza prove – di fomentare violenza politica. La Casa Bianca, nel tentativo di costruire una narrativa emergenziale, ha diffuso un elenco di episodi di presunta violenza di sinistra, ma nessuna prova concreta di un complotto coordinato. Una distorsione deliberata, utile solo a giustificare la repressione e a distogliere l’attenzione dalle violenze dell’estrema destra, dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 in poi.
Due settimane dopo l’assassinio del 10 settembre dell’attivista conservatore Charlie Kirk, Trump ha firmato un memorandum presidenziale che ordina al National Joint Terrorism Task Force di concentrarsi sui “terroristi domestici” le cui ideologie comuni includono “anti-Americanism, anti-capitalism e anti-Christianity”. È un linguaggio ideologico che criminalizza il dissenso politico e trasforma l’opposizione democratica in una minaccia alla sicurezza nazionale. Miller ha definito i manifestanti un “continuum of violence”, assimilando le proteste pacifiche a forme di terrorismo, in una retorica che riecheggia gli anni più bui della Guerra Fredda.
Il bersaglio principale di questa offensiva sono i giganti della filantropia progressista, come George Soros e Reid Hoffman, cofondatore di LinkedIn. Durante un incontro nello Studio Ovale, il 25 settembre, Trump ha dichiarato: “Se stanno finanziando queste cose, avranno dei problemi. Perché sono agitatori e anarchici.” Parole che suonano come una minaccia diretta. Senza uno straccio di prova, il presidente ha accusato Soros e la sua rete Open Society Foundations di finanziare proteste e violenze. La replica della fondazione è stata ferma: “Né George Soros né le Open Society Foundations finanziano proteste, approvano la violenza o la fomentano in alcun modo. Le affermazioni contrarie sono false.”
La Casa Bianca ha poi stilato una lista nera di nove gruppi liberali – tra cui ActBlue, Indivisible e la Coalition for Humane Immigrant Rights (CHIRLA) – accusandoli di aver finanziato proteste con episodi isolati di vandalismo. “The goal is to destabilize Soros’ network”, ha ammesso un funzionario dell’amministrazione. Non si tratta solo di retorica: la classificazione come “rete terroristica” apre la porta a strumenti repressivi concreti – indagini dell’IRS per revocare lo status di esenzione fiscale, inchieste dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia, sorveglianza federale, fino all’applicazione delle leggi RICO, nate per colpire la mafia, ora distorte per intimidire attivisti e finanziatori.
La portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha promesso che il governo “continuerà a indagare su chi finanzia queste organizzazioni”. Il Dipartimento di Giustizia ha rincarato la dose, affermando che perseguirà “coloro che partecipano agli atti criminali di antifa, compresi quelli che li finanziano o li agevolano”. Trump ha perfino firmato un ordine esecutivo per designare antifa come organizzazione terroristica domestica, nonostante la sua natura decentralizzata e l’assenza di legami esteri, generando un vuoto legale che ha lasciato nel caos giuristi e analisti del Dipartimento per la Sicurezza Interna.
Le reazioni del mondo progressista non si sono fatte attendere. Ezra Levin di Indivisible ha denunciato “una campagna di delegittimazione orchestrata per criminalizzare l’opposizione politica”. Carter Christensen di ActBlue ha ribadito l’impegno del gruppo per la legalità e la partecipazione civica. Angelica Salas, direttrice di CHIRLA, ha accusato l’amministrazione di “diffondere disinformazione e accuse false per intimorire il dissenso”. Anche organizzazioni ebraiche come IfNotNow e Jewish Voice for Peace, critiche verso la guerra israeliana a Gaza, sono finite nel mirino di una strategia che mescola xenofobia, repressione e propaganda anti-immigrazione.
Timothy Naftali, storico presidenziale ed ex direttore della Nixon Library, avverte che “questo momento è più pericoloso per lo stato di diritto negli Stati Uniti di quanto lo fosse negli anni Settanta”. Mentre Trump minaccia università, studi legali e media indipendenti, e schiera la Guardia Nazionale nelle città governate dai democratici, il Congresso repubblicano e un gabinetto di fedelissimi consolidano la deriva autoritaria.
La Casa Bianca, infine, ha persino incoraggiato la delazione politica: durante un evento con commentatori conservatori, Trump ha chiesto nomi di “gruppi violenti” da perseguire immediatamente. È la costruzione di una macchina del terrore ideologico, una forma di repressione sistemica che punta a zittire l’opposizione e a consolidare un potere personale.
Non è un’America più sicura quella che emerge da questa offensiva, ma un Paese che rischia di scivolare verso il totalitarismo, dove il dissenso è criminalizzato e la giustizia piegata al potere. La vera minaccia alla democrazia, oggi, non viene dalle piazze: viene dalla Casa Bianca.
Argomenti: donald trump