C’è una tregua, sì. Ma non c’è pace, e non c’è giustizia. A Gaza, il silenzio delle bombe non può cancellare il fragore dei massacri, delle famiglie annientate, dei bambini uccisi per fame o per paura. E soprattutto non cancella le responsabilità di chi, in questi due anni, ha scelto di voltarsi dall’altra parte. Di chi ha mantenuto un calcolato atteggiamento di appiattimento su Israele, dettato non da convinzione ma da puro opportunismo politico.
Giorgia Meloni, Antonio Tajani e Matteo Salvini oggi non possono vantarsi di nulla. Se non in maniera anodina nelle ultime settimane, non hanno mosso un dito per fermare la carneficina. Hanno scelto la complicità del silenzio, l’obbedienza alle ragioni di Tel Aviv e di Washington, la retorica vuota del “diritto di Israele a difendersi” anche di fronte all’evidenza del genocidio. Hanno continuato a parlare di sicurezza, mentre Gaza diventava un cimitero a cielo aperto.
La premier Meloni ha definito Israele una democrazia amica, Tajani si è distinto per ignavia, Salvini ha fatto il tifo per Netanyahu. Nessuno dei tre ha avuto il coraggio di dire l’unica parola che avrebbe avuto senso: basta. Nessuno ha chiesto l’embargo delle armi o sanzioni serie, nessuno ha condannato le punizioni collettive, nessuno ha chiesto conto delle violazioni del diritto internazionale. Poche parole di circostanza solo nelle ultime settimane.
E ora, di fronte alla tregua, provano a presentarsi come costruttori di pace, come se bastasse qualche giorno senza bombe per riscrivere la storia. Ma non c’è tregua possibile con la verità. I palestinesi continuano a vivere in un’enorme prigione, senza libertà di movimento senza futuro. I coloni continuano ad espandersi, ad uccidere, a bruciare, a devastare, le terre continuano a essere confiscate, le vite controllate da un regime di apartheid che nessuno osa più nominare.
Non c’è nulla da celebrare, dunque. Una tregua non è una vittoria, è solo una pausa nel disumano. E se la politica italiana volesse essere davvero all’altezza dei suoi valori costituzionali, dovrebbe iniziare con un gesto semplice ma decisivo: riconoscere le proprie responsabilità e quelle di un Occidente che ha finanziato, armato e giustificato l’ingiustificabile.
Solo allora, forse, potremo parlare di pace. Non prima.