"Genocidio": alla Knesset due deputati arabo-israeliani interrompono la propaganda di Trump e Netanyahu

Tutto era pronto per la grande celebrazione del potere. Donald Trump, tornato in Israele come un messia autoproclamato della “pace”, stava parlando alla Knesset.

"Genocidio": alla Knesset due deputati arabo-israeliani  interrompono la propaganda di Trump e Netanyahu
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13 Ottobre 2025 - 19.24


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Tutto era pronto per la grande celebrazione del potere. Donald Trump, tornato in Israele come un messia autoproclamato della “pace”, stava parlando alla Knesset. Accanto a lui, Benjamin Netanyahu e la moglie Sara, sorridenti. Davanti, l’aula gremita, le telecamere puntate, gli applausi programmati. Tutto doveva filare liscio, come in ogni spettacolo politico ben orchestrato.

Ma poi, all’improvviso, due parlamentari si sono alzati dai loro banchi. Hanno sollevato un cartello bianco, con una sola parola scritta in lettere nere: GENOCIDIO. In quel momento, il silenzio della propaganda si è incrinato. Le guardie della sicurezza sono piombate su di loro, li hanno afferrati e trascinati fuori dall’aula tra le urla di condanna dei deputati della destra. Trump ha sorriso, ha guardato Netanyahu, e ha commentato: “That was very efficient” — “È stato molto efficiente”. Poi ha ripreso a parlare, come se nulla fosse accaduto.

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Quella parola, però, era già nell’aria. E nessuna efficienza avrebbe potuto cancellarla.

Un gesto che vale più di un discorso

I due deputati sono Ayman Odeh e Ofer Cassif, voci isolate ma ostinate di un Israele che non si arrende all’idea che la sicurezza possa giustificare tutto. Odeh è arabo-israeliano, leader della coalizione Hadash-Ta’al, da anni bersaglio della destra per le sue denunce contro l’occupazione e la discriminazione sistematica dei cittadini arabi. Cassif, ebreo e accademico, è uno dei pochi parlamentari israeliani a definirsi apertamente antisionista. È stato più volte sospeso dalla Knesset per aver accusato il governo di crimini di guerra a Gaza.

Non sono due provocatori in cerca di visibilità, ma due figure che incarnano il dissenso più profondo, quello che paga caro ogni parola. Hanno scelto il momento più solenne, davanti al presidente americano e al primo ministro israeliano, per ricordare che la guerra non è finita: che a Gaza continuano a morire civili, che migliaia di famiglie non hanno più case né speranze, e che chiamare tutto questo “pace” è un insulto alla verità.

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Trump e Netanyahu: la retorica del dominio

Trump è arrivato in Israele come se tornasse in un regno amico, accolto con fanfare e tappeti rossi. La sua tappa alla Knesset doveva essere il culmine di una tournée trionfale: un leader americano che, dopo aver “mediato” la fine della guerra, si presenta come salvatore del Medio Oriente. In realtà, la tregua firmata pochi giorni fa è fragile, diseguale, e più che una pace assomiglia a un armistizio imposto.

Netanyahu lo sa bene: per lui, la visita di Trump è un colpo d’ossigeno politico dopo mesi di isolamento internazionale. Per entrambi, la foto con le bandiere intrecciate vale più delle vite perse.

Ecco perché quel cartello bianco è diventato il simbolo di tutto ciò che il potere non voleva far vedere. Mentre Trump parlava di “nuova era” e di “coraggio israeliano”, due deputati hanno ricordato al mondo che non può esserci pace senza giustizia, né alleanza senza verità.

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“Efficienza” come parola d’ordine

L’ironia involontaria del presidente americano — “È stato molto efficiente” — dice più di mille analisi. È la logica del potere che applaude sé stesso mentre rimuove chi protesta. È la stessa “efficienza” che per due anni ha permesso di bombardare Gaza in nome della sicurezza, di distruggere ospedali, di chiudere scuole, di togliere acqua e luce a due milioni di persone.

Trump non ha parlato da statista, ma da megalomane convinto di poter riscrivere la storia. E la sua frase — che voleva essere una battuta — è diventata il ritratto perfetto di un’alleanza che preferisce la forza alla parola, la propaganda alla verità.

Due voci, un messaggio

Ayman Odeh e Ofer Cassif hanno pagato la loro coerenza con l’espulsione immediata, come se il solo pronunciare la parola “genocidio” fosse un atto criminale. Ma hanno anche mostrato che dentro Israele, e perfino dentro il suo Parlamento, c’è ancora chi rifiuta di accettare la normalizzazione della violenza.

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Per un istante, il potere è stato costretto a fare i conti con la realtà che cerca di nascondere: che la pace non si costruisce con i droni, né con le strette di mano tra leader compromessi.

Trump è ripartito poche ore dopo, diretto in Egitto per un vertice mondiale sulla “fine della guerra”. Ma la scena rimasta impressa non è quella del suo discorso, né dei sorrisi di Netanyahu. È quella di due uomini trascinati via con un cartello in mano, mentre una parola — Genocidio — restava sospesa nell’aula come un’accusa che nessuno potrà più cancellare.


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