Trump alla Knesset, discorso da megalomane con tanto di interferenze politiche

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha tenuto ieri un discorso alla Knesset israeliana durato oltre un’ora, con toni solenni, passaggi retorici e momenti controversi

Trump alla Knesset, discorso da megalomane con tanto di interferenze politiche
Donald Trump
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13 Ottobre 2025 - 18.30


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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha tenuto ieri un discorso alla Knesset israeliana durato oltre un’ora, con toni solenni, passaggi retorici e momenti controversi che riflettono la posta in gioco politica e simbolica del suo viaggio in Israele.

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Attorniato dal presidente israeliano Isaac Herzog e dal presidente del Parlamento Amir Ohana, Trump ha ricevuto ripetute standing ovation da parte dei parlamentari, in un clima che ha oscillato tra l’ossequio e l’interruzione simbolica di un esponente dell’opposizione che ha alzato un cartello con la scritta “Recognise Palestine”.


L’enfasi sul “mai più” e sulla vittoria strategica

Fin dall’apertura, Trump ha voluto stabilire il perimetro simbolico del suo intervento: «Never forget, never again», parole potenti che intendevano richiamare l’impegno alla memoria ma anche la promessa di protezione perpetua.

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In vari passaggi ha lodato il premier Benjamin Netanyahu come interlocutore d’eccezione, sottolineando i meriti della cooperazione militare e diplomatica tra Israele e Stati Uniti: «Hai chiesto così tante armi… che Israele è diventato forte e potente».

Trump ha affermato che Israele ha ormai “vinto tutto ciò che poteva vincere” e che ora è giunto il momento di compiere il passo verso la pace non solo a beneficio di Israele, ma per «l’intero Medio Oriente».

Tra i momenti più applauditi c’è stato quello dedicato al disarmo di Hamas, anche se Trump non ha fornito dettagli concreti su come ciò avverrà.

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Il tono megalomane e la richiesta di grazia

Ma più che da statista, Trump ha parlato da megalomane — come ormai da tradizione nei suoi comizi — mettendo al centro non la politica o la diplomazia, ma se stesso. Il culmine si è raggiunto con la richiesta, plateale e fuori protocollo, rivolta al presidente Herzog di concedere una “pardon” a Netanyahu per qualsiasi futuro procedimento giudiziario.

Con tono ironico e provocatorio, ha citato le accuse legate ai regali di sigari e champagne, liquidandole come “sciocchezze” rispetto all’eroismo di Netanyahu in guerra.
Una battuta che, dietro la maschera del cabaret politico, si traduce nell’ennesima interferenza in favore degli estremisti di destra suoi amici e sodali ideologici: da Bolsonaro a Orban, da Netanyahu a Milei.

In Israele, Netanyahu è tuttora indagato per frode, corruzione e abuso di fiducia, accuse che egli ha sempre respinto come parte di una “cospirazione politica”. La “grazia” invocata da Trump suona come un messaggio chiaro: per i suoi alleati ultranazionalisti, la legge vale solo quando conviene.

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Il contesto della tregua e le implicazioni geopolitiche

Il discorso di Trump è arrivato in un momento carico di tensioni diplomatiche. Il cessate il fuoco fra Israele e Hamas è operativo, con il rilascio degli ultimi ostaggi ancora in corso.

Trump ha affermato che la guerra è finita e che ora è il momento di ricostruire e ripensare il futuro della regione. Ha sollecitato gli israeliani a cogliere questa “storica opportunità di pace” e ha suggerito – senza entrare nei dettagli – un nuovo assetto politico ed economico per Gaza.

Il contesto geopolitico è denso: il presidente americano ha parlato mentre si avvicina un vertice in Egitto con diversi paesi arabi per sancire una nuova fase mediorientale.

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Tra applausi e imbarazzi: l’eredità del discorso

L’evento è stato un fatto politico e mediatico d’impatto. In un auditorium che osannava Trump come “il grande alleato” di Israele, l’appello pubblico alla grazia ha sposato la retorica della fratellanza strategica con la mossa d’avanguardia di influenzare indirettamente la magistratura israeliana.

Ma non è passato inosservato il contrasto interno: l’opposizione israeliana ha mostrato simbolicamente una richiesta di riconoscimento di Palestina, relegata fuori da un’aula che ha invece reso omaggio alla retorica pro-Israele.

Il discorso di Trump non ha solo celebrato l’asse Washington-Tel Aviv, ma ha rilanciato apertamente il conflitto fra giurisdizione nazionale e protezione politica, fra memoria e potere.
La mossa della “grazia” resterà come un segnale chiaro del suo stile di leadership: autoritario, narcisista, incapace di distinguere tra amicizia e complicità.

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